Unica Umbria

Storia & Storie

Parlare con gli dèi: le Tavole di Gubbio

Diario di viaggio, Luoghi
Autore: Fioravanti, Federico

Sette lastre di bronzo. Rettangolari. Diverse per peso e misure. Esposte una accanto all’altra, nel silenzio di una piccola sala del trecentesco Palazzo dei Consoli. Le Tavole Iguvine furono ritrovate da una contadina nel 1444 in un terreno impiegato per il pascolo delle pecore, nei pressi dell’antico Teatro Romano.

Il loro acquisto da parte del Comune di Gubbio, nel 1456, segnò di fatto la data di nascita della pratica della “conservazione dei beni culturali”.

Un passo dell’atto notarile descrive bene lo stupore che coglie ancora oggi il visitatore di fronte agli antichi segni che corrono ordinati sul bronzo: Variis literis scriptas latinis et segretis. «Lettere diverse, sia latine che misteriose».

Il senso delle 4365 parole fuse con l’antico metodo della “cera persa”, rimase infatti impenetrabile per almeno quattro secoli.

Solo con l’aiuto della nascente glottologia, in pieno Ottocento, si cominciò a capire che quei segni enigmatici, frutto di due differenti scuole di scrittura e quindi di due diversi alfabeti, prima etrusco e poi latino, erano espressione di uno stesso, arcaico idioma indoeuropeo, oggi catalogato dai linguisti come “umbro-safino”.

Gli antichi bronzi, come degli specchi, riflettono la lingua perduta degli Antichi Umbri e il mondo pre-urbano delle favolose genti scampate alle incessanti piogge di un diluvio ricordato come “universale”.

I Greci li chiamavano Ombrikoi. Per Plinio, erano la stirpe più antica della penisola: Gens antiquissima Italiae.

Il linguista e archeologo Giacomo Devoto ha definito le Tavole Iguvine come «il più importante testo rituale di tutta l’antichità classica».

Le Tavole Iguvine a Palazzo dei Consoli

Nella sua fondamentale opera sull’argomento (Tabulae iguvinae, 1937) il grande studioso dei popoli italici scrisse: »Non possediamo nulla di simile né in lingua latina né greca: per trovare paralleli, bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente».

Secondo il “Dizionario d’antichità classica di Oxford” (vol III, 1953) per la loro ampiezza e antichità, le tavole superano in importanza tutti gli altri documenti disponibili per lo studio delle antiche religioni italiche.

La vastità e l’originalità dei contenuti ne fanno un documento prezioso, un unicum nella storia dell’Occidente, capace di aprire uno squarcio su un mondo perduto.

Dalle lastre di bronzo riemergono 11 testi. Ma i temi trattati sono 9 poiché due argomenti sono ripetuti in una stesura doppia, breve e lunga.

Le parole si susseguono, per 7 facciate e mezza in grafia etrusca, anche se leggermente adattata, e per 4 facce e mezza in grafia latina.

Più di un centinaio di vocaboli, tutti sulla stessa tematica, si ripresentano nelle due diverse scritture. Questa circostanza ha permesso che la conoscenza dei valori alfabetici latini servisse come chiave per comprendere i segni etruschi nelle parole uguali o simili.

Sullo studio dei testi eugubini, certamente non etruschi si è quindi a lungo fondata la decifrazione della scrittura degli abitanti dell’antica Etruria.

Le Tavole Iguvine elencano prescrizioni rituali. Regole che non erano destinate “al mondo esterno” ma solo alla “confraternita Atiedia”, un collegio di cittadini eccellenti della comunità iguvina che aveva il compito di officiare i culti collettivi. Chiamati così in ricordo di Atiedio, città madre nell’alta valle dell’Esino, oggi Attiggio, frazione del comune di Fabriano, di cui Iguvium era figlia o colonia.

Parlare con gli dèi a nome della comunità era un privilegio riservato a pochi, nobili eletti. Ma era importante farlo in modo corretto, secondo procedure rigorose e immutabili, attraverso un “breviario” che andava conservato e trasmesso, di generazione in generazione.

Bisognava evitare che chi officiasse i riti potesse modificare i modi e i tempi di una liturgia considerata perfetta. L’unico strumento, secondo gli antichi abitanti dell’Appennino, per guadagnare la benevolenza divina e ottenere la salute delle persone e del bestiame insieme all’agognata prosperità dei campi.

Le Tavole Iguvine più antiche risalgono al III secolo a.C. Quelle più recenti al I secolo. Ma i testi sono di centinaia di anni prima.

Furono gli Umbri contemporanei dei Romani a fermare sul bronzo norme, preghiere e invocazioni che nei secoli precedenti erano state trascritte sulle pelli, le tele, i legni e altri materiali soggetti all’usura del tempo.

Al momento dell’ultima trascrizione, il testo tradizionale fu aggiornato con le unità di misura e monetarie romane, alcune indicazioni topografiche e l’indicazione di nuove cariche pubbliche.

I fori che appaiono ai lati delle tavole e che tanto colpiscono i visitatori del museo eugubino, ci ricordano che i documenti bruniti nell’età augustea venivano appesi.

Negli anni della “pace” romana, quelle tavole  servivano a ricordare e riaffermare l’orgoglio di un’identità e le radici profonde di una storia millenaria.

Con ogni probabilità vennero esposte alla visione pubblica proprio nell’androne del Teatro Romano, nei pressi del quale furono poi ritrovate.

Sui particolari della scoperta le cronache sono discordanti. Nel primo studio documentato sull’argomento (1580), l’erudito eugubino Gabriele Gabrielli (1555-1602) fissò la data del ritrovamento al 1444.

Quel che è certo è che dodici anni dopo, nel 1456, le Tavole divennero proprietà del Comune, come riporta, nero su bianco, l’atto notarile, redatto in latino e sottoscritto il 25 agosto dal cancelliere comunale Guerriero Campioni.

L’amministrazione comunale, che all’epoca era già sotto il dominio dei Montefeltro, trattò la vendita con Paolo di Gregorio, originario di Sinij, una cittadina vicino Spalato. L’uomo rappresentava Presentina, la contadina che ritrovò i preziosi bronzi. La donna non sapeva né leggere né scrivere ma in cambio delle sette tavole ottenne quello che voleva: 40 fiorini, equivalenti ai proventi di due anni della gabella applicata all’uso dei monti e dei pascoli intorno alla città.

Il documento fu registrato sui libri delle “Riformanze” di Gubbio. Colpisce la descrizione che ne fece il cancelliere comunale. Ser Guerriero per due volte scrisse eburneas anziché aheneas. Tavole bianche, come l’avorio. Quella frase fa ancora discutere ed alimenta improbabili “gialli” storici e archeologici.

Un lapsus dotto, se il notaio pensava alle dodici tavole delle leggi romane, incise su tavolette eburnee. Ma forse la spiegazione è più semplice e va inquadrata nel “latinorum” usato dai burocrati dell’epoca.

Guerriero Campioni, che in seguito fu notaio di fiducia e biografo ufficiale di Federico da Montefeltro, non faceva eccezione: il suo latino era farraginoso e sovraccarico di forme dialettali, come testimonia la sua opera principale, una “Cronaca”, dedicata alle imprese del signore di Urbino.

Il Comune di Gubbio tenne le tavole lontane dagli occhi del pubblico fino agli inizi del Novecento. Ma gli amministratori del XVI secolo, con il determinante aiuto di Gabriele Gabrielli, inviarono ben 300 copie dei testi, riprodotti a stampa con il metodo dell’acquaforte, in tutte le principali università europee.

L’alfabeto degli Umbri, fotografia di Ancillotti

Per provare a decifrare quelle lettere, si cominciò a copiarle. Così fece, con certosina tenacia, anche il conte eugubino Giovan Battista Caltamaggi. Altre copie furono diffuse grazie all’uso sempre più frequente delle presse per la stampa.

Chi parlò per la prima volta di un documento umbro fu Curzio Inghirami (1614 – 1655), un discusso archeologo volterrano. Ma purtroppo aveva fama di falsario e pochi gli dettero retta.

L’intuizione fu ripresa, con esito diverso, nel 1726 dallo studioso Filippo Buonarroti, al quale Cosimo de’ Medici aveva affidato la revisione di un’opera di Thomas Dempster del 1619 dal titolo “De Etruria Regali”.

Nel libro erano elencate le iscrizioni etrusche conosciute fino ad allora. Buonarroti aggiunse alla preziosa lista anche le Tavole Iguvine. Nel suo scritto sottolineò una chiara evidenza: nei testi delle Tavole non compaiono mai nomi con la terminazione “al”, caratteristica dell’idioma degli Etruschi. La lingua riportata sul bronzo doveva quindi essere diversa. Ma Buonarroti, con la prudenza dello storico, si limitò a titolare il libro Esplicatione et coniecturae.

Più tardi, Scipione Maffei (1675–1755) un erudito veronese che Giacomo Leopardi considerava «uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata e originale», volle vedere di persona quelle opere misteriose. E si convinse definitivamente di un fatto: quella lingua fermata sui bronzi di certo non poteva essere etrusca.

Un’altra, autorevole conferma, arrivò nel 1734 dagli studi del linguista e filosofo svizzero Louis Bourguet (1678-1748).

Delle affascinanti Tavole scrisse anche Anton Francesco Gori, nella sua opera Museum Etruscum. Un altro studioso settecentesco, l’alto prelato Giovan Battista Passeri, fu il primo a notare che le prime tavole e le ultime due trattavano di argomenti simili.

Il valore fonetico dei segni fu analizzato anche dal gesuita Luigi Lanzi nel 1789. Ma fu Karl Richard Lepsius, pioniere dell’archeologia moderna, il primo ricercatore che affrontò lo studio dei misteriosi testi di Gubbio su una base veramente scientifica.

Lo studioso tedesco dedicò alle Tavole Iguvine la sua tesi di dottorato nel 1833. E assegnò loro una numerazione, composta da una faccia anteriore A e una posteriore B. L’opera De tabulis eugubinis fu pubblicata dall’ateneo di Berlino ed ebbe grande risonanza in tutte le università europee. La curiosità sul misterioso reperto sedusse presto anche le élites culturali del Vecchio Continente.

La consacrazione scientifica però arrivò soltanto cento anni dopo, grazie a Giacomo Devoto:

«Non possediamo nulla di simile né in lingua latina né greca: per trovare paralleli, bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente».

Aldo Prosdocimi e Augusto Ancillotti

Insomma, c’era una storia da riscrivere. Ma che era già incisa sul bronzo. L’impresa della traduzione coinvolse i maggiori glottologi italiani, dall’indianista Vittore Pisani ad Aldo Prosdocimi, che nel 1984 pubblicò un primo volume che riportava il testo con la conseguente descrizione paleografica. Le Tavole furono indagate con passione anche da Piero Luigi Menichetti, studioso della storia eugubina.

Il secolare percorso della traduzione fu completato dal glottologo Augusto Ancillotti, autore insieme a Romolo Cerri, de “Le tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri” (Edizioni Jama, Perugia 1996).

Nelle Tavole Iguvine molte parole si ripetono, e spesso, con voci simili, indicano le medesime cose.

L’antico alfabeto è composto da 18 lettere: 14 consonanti e 4 vocali. Manca la “o”. Solo la terza e la quarta tavola non presentano scritte su entrambe i lati.

Ma le differenze non si fermano qui. La prima e la seconda tavola hanno le stesse dimensioni; la terza e la quarta sono più piccole delle prime due; la quinta è di grandezza media, mentre le ultime due sono più grandi delle altre.

Le prime quattro tavole e anche una parte della quinta, sono redatte da destra a sinistra. La parte restante della quinta tavola e le ultime due si leggono invece da sinistra a destra.

Tramandare il “breviario” attraverso il quale si celebravano i riti comunitari di Iguvium e delle città alleate era il primo e il più importante dei doveri dell’antica società italica.

Tutte le cerimonie religiose pubbliche erano affidate ai confratelli Atiedii. Le preghiere private, all’interno delle mura domestiche, erano invece compito dei capifamiglia.

Attraverso le regole del rito possiamo ricostruire la società degli Antichi Umbri. La comunità cittadina, organizzata in senso politico e amministrativo, veniva chiamata tota.

Nella Tavola II e nella Tavola V sono riportate le istruzioni per il corretto svolgimento rituale del patto della decade, termine con cui si indicava una confederazione tradizionale di dieci comunità strette in un patto lungo un territorio appenninico che da Iguvium arrivava al mare Adriatico.

Le città-stato alleate, con il tempo, diventarono venti, pur mantenendo i dieci nomi sacri originali: tiieřiate, klaverniie, kureiate, satanes, peieřiate, talenate, museiate, iuieskane, kaselate e peraznanie.

La confraternita Atiedia, di fatto la prima e più importante forma di governo sovraregionale della penisola italiana di cui si abbia conoscenza, era composta da cento membri, cinque per ogni comunità.

Fisio era il nome del monte sulle cui pendici sorgeva la città di Iguvium: l’attuale Monte Ingino era definito con la parola okri: indicava il luogo sacro, simbolo dell’identità collettiva, dove il popolo, i cittadini armati in grado di combattere, veniva chiamato a raccolta.

Nel rito lustrale l’officiante ordina: caterahamo, «disponetevi secondo le catera». Il verbo rimandava al termine militare katera, che indicava la schiera armata in formazione di battaglia. Gli studiosi delle Tavole Iguvine ipotizzano che da questa parola discenda anche la centuria dei Romani, passando dal termine latino caterua (“moltitudine”).

L’uomo umbro di 2500 anni fa parlava da pari a pari con gli dèi. Si poneva al centro di un universo, che cercava addirittura di condurre sotto il proprio controllo con la forza magica e la potenza della parola, attraverso la quale tutte le cose venivano definite e prendevano vita.

Le preghiere, di volta in volta, erano recitate con voce chiara e forte oppure espresse in silenzio. Il favore del dio dipendeva dalla perfezione stessa della liturgia.

Tavola I – facciata A

La Tavola V è un documento eccezionale che apre uno squarcio nuovo e incredibilmente moderno su una società di quasi tremila anni fa: la confraternita era gestita in modo collegiale, su base maggioritaria. Certo, l’impeccabile esecuzione degli atti e la gestione delle parole cerimoniali era compito specifico di un officiante. Ma il prescelto non era un autocrate. Anzi, sottoponeva ogni suo atto al gradimento dei confratelli che potevano premiarlo o multarlo, a seconda del suo operato.

Nel rapporto con gli dèi valevano le stesse regole della società degli uomini. Con al primo posto la lealtà e il rispetto dell’impegno assunto.

La parola data era talmente importante che venne divinizzata: Fisone Sancio era il dio che riconosceva un patto come valido e quindi “sanciva”, una decisione fino a sacralizzarla, conferendo ufficialità e chiarezza agli accordi presi. Un garante dei patti su cui si fondava la comunità ma anche delle molte regole che le città confederate dovevano rispettare.

I nove testi diversi raccolti nelle sette Tavole sono quindi un manuale del giusto rapporto da assumere quando ci si rivolge alla divinità.

Per esempio, raccontano in modo minuzioso, il corretto svolgimento delle cerimonie di purificazione sia sul terreno religioso (piacula) che su quello militare (lustratio). Oppure elencano le prescrizioni del rito “per auspici avversi”.

Arrivano a descrivere, nei dettagli, il sacrificio rituale di un cane. E regolano la corretta cerimonia di cinque speciali giornate dell’anno, dette Sestentasie che servivano a propiziare il raccolto secondo le tradizioni dell’antico mondo agro-pastorale.

Le parole inscritte sul bronzo illustrano i diritti e i doveri degli officianti e chiariscono le regole tributarie e commerciali da rispettare nei rapporti fra le città confederate.

Di particolare interesse, per più motivi, appare la descrizione che le Tavole Iguvine fanno della lustratio, una cerimonia di purificazione dei cittadini in armi. Le azioni militari portavano morte e distruzioni e quindi rovesciavano l’ordine naturale delle cose.

Dalle parole delle Tavole Iguvine scopriamo un popolo che impugna le armi solo quando è costretto. E che vede la guerra, in modo pressoché esclusivo, soltanto come uno strumento di difesa.

L’abito del soldato andava indossato come un dovere verso gli altri, per difendere il bene comune del territorio minacciato dai nemici. Ma la guerra è un male, da tenere lontano dalle proprie case e dalla vita di tutti i giorni.

Saranno i Romani, nipoti imperialisti degli Umbri, a trasformare gli eserciti in strumento di conquista e di espansione territoriale. E di conseguenza, a costruire accanto agli antichi percorsi naturali delle vie commerciali battute dai popoli italici, le efficienti e lastricate strade consolari, utili a far muovere in fretta, da un punto all’altro della penisola, la devastante macchina militare delle legioni.

Il mestiere delle armi, in ogni caso, era di esclusiva competenza delle élites. La lustratio, una delle più arcaiche forme di censimento conosciute, diventava così anche un modo per contarsi, per capire chi era in condizione di combattere.

L’elenco dei potenziali guerrieri escludeva gli stranieri. La circostanza, paradossalmente, fa riflettere sullo spirito tollerante dell’antico popolo italico verso chi non era nato nella comunità di Iguvium.

Il fatto che il divieto venga ripetuto più volte, ci informa che nella città degli Umbri risiedevano molti stranieri e che la loro presenza, a esclusione del momento della battaglia, era considerata del tutto normale. L’esclusione dalla cerimonia militare non era quindi dettata da ostilità ma dalla necessità di rimarcare l’identità cittadina.

Nella vita di ogni giorno, gli Antichi Umbri cercavano di continuo il mers, la “giusta misura”. Un buon senso da inseguire e che emerge anche nel testo della settima tavola, nel celebre passo della imprecatio, la preghiera rivolta alla divinità di Torsa Giovia per ottenere la sconfitta dei nemici.

Gli abitanti di Iguvium descrivono se stessi come vittime di continue scorrerie da parte di bellicosi vicini. Le condannano, con forza. Ma sanno che non è possibile eliminarle del tutto dalla loro vita. In qualche modo devono convivere con la disgrazia di essere quasi sempre sotto la pressione di un attacco. Allora pregano la dea in modo collettivo. Le chiedono di terrorizzare i nemici, perché almeno si spostino e ripieghino in altre zone.

L’invocazione a Torsa Giovia è la più antica formulazione poetica conosciuta nella penisola italiana. È caratterizzata da una ritmica incalzante e dalla figura della allitterazione.

Il suono delle stesse frasi veniva ripetuto più volte, per dare maggiore forza alla preghiera: un altro segno della cieca fiducia degli Umbri nella potenza magica della parola.

Più che un reale odio tra vicini, il rito assolveva alla funzione di messaggio preventivo. Quasi un testo buono per ogni azione di politica estera. E di sicuro, con parole simili, veniva usato contro Iguvium anche dai popoli confinanti.

Mappa degli antichi popoli italici

La confederazione Atiedia, che raggruppava venti città alleate, al di là del Tevere confinava con Perugia e gli altri centri che erano sotto il controllo degli Etruschi; a Oriente verso il mare, c’era il costante pericolo degli Iapodi, i pirati illirici che infestavano le coste adriatiche; a sud, vivevano altre genti umbre: i Tadinati, insediati nell’area dell’attuale Gualdo Tadino e i Naharchi che abitavano lungo le sponde del fiume Nera nei pressi del luogo dove poi nascerà Interamna Nahars, la Terni latina.

Nel racconto ormai decifrato delle Tavole, la cultura paleoumbra dell’Età del Bronzo e quella safina o savina dell’Età del Ferro sono mescolate. Nella prima c’è una visione più antica del divino, che appare misterioso e duale: uranio e ctonio, celeste e allo stesso tempo interno al terreno.

La seconda, come scrive il glottologo Augusto Ancillotti, è invece «portatrice di una visione tripartita, che vede il divino, come l’umano, articolato secondo il potere della parola magica e creatrice, potere della forza materiale e potere della vitalità e della fecondità».

Il dio della riproduzione è l’umbro Vofion, la divinità del clan. La trinità è costituita quindi da Giove Grabovio, Marte Grabovio e Vofione Grabovio. A indicare che nell’epoca in cui i testi delle tavole furono trasportati sul bronzo, tutti gli dèi avevano assunto i caratteri di Grabo, una antichissima divinità iguvina.

Giove padre, trasposizione dell’autorità assoluta del pater familias, è il patrono del monte Fisio che domina Iguvium. E anche della confraternita Atiedia.

Mart, corrispondente del Marte latino, l’atavico dio dei guerrieri pastori. Vofione è il dio della fertilità, che assicura la discendenza e quindi la vita futura alla città.

Tre divinità. Nel rito, colpisce la valenza magico religiosa attribuita al numero. Tre sono le porte maggiori, Tessenaca, Trebulana e Vehia, dalle quali si poteva accedere a Iguvium. Tre gli enti beneficiari delle offerte. Tre anche i tempi del sacrificio.

Come ternario è il ritmo della danza rituale. E la proclamazione della fine del rito, descritta nella sesta tavola, che doveva essere ripetuta tre volte prima che la fila degli armati potesse finalmente sciogliersi.

ceriNon si può non pensare, quasi come a un riflesso condizionato, ai Ceri, la straordinaria e emozionante festa popolare di Gubbio arrivata fino ai nostri giorni. Tre santi: Ubaldo patrono, Giorgio guerriero e Antonio, garante della eugubinità. Come la triade umbra Giove – Marte – Vofione.

E poi le processioni. Le sfilate. I giri nella piazza. Le tre soste, simili ai cortei dei sacerdoti di Marte, i Salii sabini, da cui nacquero il saltarello e la tarantella, danzati in triplice tempo, proprio come l’ahtrepudaom, il “tripudiare”, citato nelle Tavole Iguvine: in senso letterale «battere i piedi in tre tempi».

E poi c’è la kletra, una portantina di legno. Era la gabbia da trasporto per la pecora e il maiale, gli animali che venivano sacrificati durante la cerimonia delle Sestentasie, la festa che serviva a propiziare i raccolti e che dava inizio all’anno agrario.

La barella rituale non doveva essere molto diversa da quelle su cui oggi poggiano i Ceri. Dietro la kletra, che veniva portata a braccia, tutta la gente di Iguvium saliva al monte sacro, l’okri Fisio, insieme ai rappresentanti delle comunità umbre federate.

Sulle Tavole Iguvine è scritto: Alven kletram aparito. Vuol dire: «Al campo si allestisca la portantina».

Così le parti in legno della kletra venivano assemblate appena fuori dalla città, “al campo”. In parte avviene anche oggi per i Ceri, nel giorno della festa, quando le tre macchine di legno, dopo una pausa, ripartono, appena poco oltre  la porta di S.Ubaldo, come se la folle e meravigliosa corsa avesse inizio proprio da quel punto.

Antico e moderno, morte e preghiere, si confondono nel fascino delle antiche parole incise sul bronzo.

Nelle ore del sacrificio in nome di Torsa Giovia, 12 giovenche “mature” venivano messe in fuga per le vie della città. Il rito della loro cattura rimanda alle ataviche tauromachie dei popoli del Mediterraneo e alla vertiginosa e celebre corrida di Pamplona, che, in qualche modo, somiglia anche alla “Fuga del Bove”, la festa popolare natalizia della città umbra di Montefalco, una volta molto più feroce di quella di oggi, dove un bue, abbeverato da un cocktail di pepe e vino, saliva lungo le vie cittadine e poi moriva, sfinito dalla corsa, tra le grida della folla che esultava per la morte dell’animale.

Nell’Italia preromana gli Antichi Umbri gettarono le basi della nostra civiltà. Insediamenti in forma di villaggi furono organizzati come comunità statali. All’antico popolo dobbiamo la pratica della giustizia e l’istituzione delle prime magistrature civili e religiose. Nacque allora il concetto di patria comune. E il territorio iniziò ad essere considerato un bene collettivo da difendere.

Gli Antichi Umbri fissarono per primi norme che sono ancora fondamentali per le società contemporanee. Come il rispetto del principio della separazione della proprietà privata, governata dalla famiglia patriarcale e la “cosa pubblica”, che era invece un patrimonio di tutta la comunità.

La confederazione (deku) delle venti città, all’interno di un’unità territoriale molto più ampia del proprio paese di origine, dava prosperità ai commerci e agli spostamenti stagionali di un popolo di pastori. Facilitava la costruzione di nuove strade e regolava la transumanza del bestiame, lungo i tratturi che si intrecciavano tra le valli.

Quasi tremila anni fa, sui monti dell’Appennino accadeva quindi, in una forma certamente molto diversa da oggi, qualcosa comunque di simile a quello che succede ai giorni nostri con la libera circolazione delle persone e delle merci all’interno dell’Unione Europea.

Tavole Iguvine conservate nel Palazzo dei Consoli

Con gli Antichi Umbri nacquero tutta una serie di figure capaci di ordinare la vita pubblica, dal magistrato in capo (uhtur), al suo collega che curava le opere pubbliche (maron). Fino al giudice (meddix) e all’arbiter, il magistrato “equidistante” a cui era demandato il compito di risolvere le controversie.

L’enorme contributo dei Sabini e quindi degli Umbri alla nascita di Roma è testimoniato dalle eccezionali simmetrie che si riscontrano nell’organizzazione politica e sociale dei due popoli.

A partire dai rituali della fondazione dell’Urbe, descritti nella leggenda di Romolo e Remo. Fino alla religione, all’ideologia sociale e alle radici profonde del diritto romano.

I nomi degli antichi re sabini di Roma sono il simbolo stesso di uno straordinario patrimonio religioso e morale. Da Tito Tazio, che regnò per cinque anni insieme a Romolo, al grande Numa Pompilio.

I testi delle Tavole Iguvine, finalmente tradotti, ci ricordano un’altra eredità che ci arriva dalla civiltà degli Umbri, lontana dalle meraviglie dell’arte etrusca o dalle grandiose opere dei Romani. A lungo misconosciuta. Ma comunque integra, a distanza di trenta secoli. Non oggetti o cose. Ma parole. Termini che l’antico mondo italico ha trasferito prima al lessico latino e poi a noi.

Parole della viabilità, come via o calle. Della teologia o del culto come Cerere, pontifex oppure pius. Dell’ideologia sociale (vir, familia, curia); della terminologia giuridica (arbiter, auctoritas, stipula). Oppure dell’organizzazione militare: centuria, fundere, hastatus, cinctus.

Suoni vivi e familiari: casa, tetto, vino, cibo, popolo, soglia, vaso, carne, picchio, capro o vitello. Verbi come curare, tacere, portare oppure sancire. E aggettivi: saldo, salvo, scritto, sacro…

Un legame profondo: radici intrecciate di parole, ci legano per sempre ai segni, a lungo misteriosi, delle tavole di Iguvium.

Federico Fioravanti