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Storia & Storie

Dedalo, l’uomo che volò sui tetti di Perugia

Diario di viaggio
Autore: Fioravanti, Federico

Giovan Battista Danti era un ragazzo prodigio. Matematico e fisico, quando aveva meno di 20 anni era già una gloria dell’Università di Perugia, la città dove nacque nel 1478. I Baglioni, temuti signori della città, lo tenevano d’occhio soprattutto per i suoi progetti di ingegneria militare.

Dedalo incita il figlio al volo, Charles Paul Landon, 1799, Alençon, Musée des Beaux-Arts et de la Dentelle

Ma la mente del giovanissimo scienziato era pervasa da un’ambizione segreta: quella di realizzare la profezia del filosofo medievale Ruggero Bacone, che nel XIII secolo scriveva: «Arriveremo a costruire macchine alate, capaci di sollevarsi nell’aria come gli uccelli». Però, a differenza del “doctor mirabilis”, Giovan Battista vagheggiava un volo senza aiuti meccanici.

I suoi concittadini, per sfotterlo un po’, lo chiamavano Dedalo, come lo sfortunato e geniale personaggio della mitologia greca, che vide suo figlio Icaro inabissarsi in mare per essersi avvicinato troppo al sole mentre volavano insieme, lontano dal labirinto del feroce Minotauro che lui stesso aveva costruito.

Anche Giovan Battista pensò a due grandi ali per realizzare il suo sogno. Ma non le fece di cera. Le volle enormi, realizzate con pelli e legni leggerissimi. Soprattutto stette bene attento che fossero proporzionate al suo peso. Per questo studiò varie soluzioni, esaminando a lungo la curvatura delle ali degli uccelli e l’impatto dei venti sull’innovativa struttura.

GLI UOMINI ALATI Di sicuro, nonostante la sua profonda cultura sull’argomento, Giovan Battista non poteva conoscere le antichissime tradizioni cinesi dell’aquilone e della lanterna volante, che già da secoli si sollevavano in cielo, come le moderne mongolfiere, grazie all’aria scaldata da piccole candele. Ma forse aveva letto la leggendaria storia dell’astronomo greco Archita, che quasi 400 anni prima di Cristo aveva costruito una colomba meccanica in legno che si alzava in aria grazie al vapore. E aveva comunque sentito parlare di un certo Armen Firman che nell’852, nella penisola iberica, costruì un grande mantello, simile a un ombrello con dei panni irrigiditi. Così abbigliato, si lanciò dal minareto della moschea di Cordova, senza farsi nemmeno troppo male, felice di aver realizzato un meccano simile al moderno paracadute.

Un altro coraggiosissimo sperimentatore, poco dopo l’anno Mille, fu un monaco benedettino, Elmer di Malmesbury, studioso di astrologia, che in gioventù si fracassò le gambe dopo aver spiccato il volo con una specie di aliante dalla torre dell’abbazia. Rimase zoppo per tutta la vita, ma anche convinto che se si fosse attaccato al corpo una coda meccanica, avrebbe potuto effettuare un atterraggio morbido. Il suo superiore, l’abate di Malmesbury, pensò bene di vietargli qualunque altro esperimento. Così, con molti rimpianti, Elmer passò il resto dei suoi giorni pregando e lavorando ai suoi trattati astrologici.

Schizzo di un progetto di Leonardo da Vinci per una macchina per il volo

Le imprese temerarie di quegli uomini alati furono studiate dal matematico perugino. Ma Giovan Battista voleva andare oltre le improvvisazioni. Non era solo una questione di coraggio. La sfida del volo andava affrontata in modo scientifico.

Come faceva negli stessi anni Leonardo da Vinci, che aveva 26 primavere più di lui e che da tempo raccoglieva minuziose osservazioni tecniche sulla resistenza aerodinamica. Studi straordinari che sarebbero poi confluiti nel famoso “Codice sul volo degli uccelli”, una delle sue tante opere incompiute e meravigliose. Leonardo vagheggiava splendide macchine che «battevano le ali» come quella stupefacente del “Grande nibbio”, che costruì osservando a lungo il volteggiare del rapace.

L’INCONTRO CON LEONARDO Danti cercava altre strade. Sosteneva che l’uomo poteva sì volare ma con le ali ferme, sfruttando il favore del vento e le correnti ascensionali, come accade oggi con gli alianti o i deltaplani. Le scarne cronache del tempo raccontano che i due scienziati una volta si incontrarono grazie a Giampaolo Baglioni, potente signore di Perugia, che aveva parlato a Leonardo di colui «qui ingenii acumine hominem quoque volare posse docuisset». Immaginiamo la curiosità del grande genio di da Vinci di fronte allo scienziato perugino che avrebbe potuto spiegare anche a lui come l’uomo potesse volare.

I due furono presentati con ogni probabilità nel corso del 1502 a Castiglion del Lago, nella torre fortezza dei Baglioni, poi trasformata in Palazzo Ducale. Nello stesso luogo fu ospitato anche Niccolò Machiavelli. Leonardo allora progettava una definitiva bonifica idrografica delle vaste terre comprese tra il Trasimeno, la Valdichiana, la Valtiberina e il Valdarno.

Venti anni prima, alla corte milanese di Ludovico il Moro, aveva perfezionato gli studi giovanili sulla resistenza dell’aria. Intuì di «poterla soggiogare e levarsi sopra di lei» soltanto «facendo forza contro». Così, già nel 1485 progettò un paracadute. E disegnò anche una vite aerea, prototipo dell’elicottero.

Giovan Battista e Leonardo da Vinci, sulle rive del Trasimeno, parlarono a lungo. Anche se ognuno rimase della propria opinione. Danti del resto, almeno da cinque anni, era già passato dalla teoria alla pratica.

IL VOLO SUI TETTI DI PERUGIA Nelle notti d’estate, all’imbrunire, accompagnato da un fedele servitore, caricava le ali su un carretto e correva verso il Lago Trasimeno. La prima volta si lanciò da una altura dell’Isola Maggiore, verso la punta di un mulino «per prendere il vento che spirava a tramontana». Usò l’acqua come pista di atterraggio per evitare di sfracellarsi al suolo. E fece bene. Planò sul letto del Trasimeno e fu ripescato dal suo assistente. Insieme, dovevano sembrare ai perugini dell’epoca due strambi personaggi rapiti da un sogno tutto loro.

Così, Lione Pascoli descrisse la strana coppia nel libro “Vite dei pittori, scultori e architetti perugini”, edito a Roma nel 1732: «Cominciò da sè a lavorare notte e giorno segretamente ferri, molle, e altri ordigni e tirateli tutti felicemente a fine altro non gli restava a fare che l’esperienza. E perché questa pure fosse occulta, acciò improvviso del tutto giungesse in Perugia lo spettacolo aspettò il plenilunio, e nell’ore in cui altri più saporitamente riposano ed in un luogo il più remoto d’una di quelle isole per non esser veduto, aggiustò bene al suo dosso gli ordigni, che formavano due ali, e sopra quell’acque tentò di volare, e volò per qualche non piccolo spazio facilmente; ma quando stanco volle fermarli, come voluto avrebbe a poco a poco, e gli convenne alla riva della medesima, ove quel suo amico l’aspettava, sovra dell’acque lasciarsi cadere».

I tetti di Perugia, fotografia di Paolo Ficola

La grande occasione per presentare la mirabile invenzione arrivò nel febbraio del 1498. Perugia si apprestava a celebrare le sfarzose nozze della giovane Pantasilea Baglioni, discendente del potente casato dei signori della città, con il celebre capitano di ventura Bartolomeo d’Alviano che l’anno precedente aveva perduto la prima moglie.

Al culmine della festa, nella Piazza Grande, intorno alla Fontana Maggiore, tra i balli, i canti e i musici, l’attenzione degli illustri invitati e del popolo fu attratta dall’uomo alato salito su uno dei tetti adiacenti alla cattedrale. I suoni e le grida lasciarono spazio al silenzio: Giovan Battista Danti si lanciò nel vuoto, ad ali spiegate, fidando sull’eterno vento cittadino. E volò per qualche tempo sulla folla plaudente e stupefatta. Ma poi la giuntura di un’ala si ruppe e Dedalo sterzò, perse quota e cadde su un tetto vicino la Sapienza Nuova. Si fratturò una gamba ma acquistò gloria imperitura.

Giovan Battista non ripeté più l’esperimento. Qualche tempo dopo, lasciò anche Perugia, alla volta di Venezia, dove insegnò matematica e lavorò come ingegnere militare al servizio della Serenissima fino alla fine dei suoi giorni. Morì a soli 39 anni nel 1517.

L’eco delle sue gesta inchiostrò le attente pagine di storia perugina di Crispolti, Pascoli, Pellini e Bonazzi. Ma si spense presto, come il suo sogno. Rimase il nomignolo: Dedalo, sussurrato ancora dai tenaci cultori delle storie dimenticate. E una bella piazza perugina che oggi evoca il suo cognome ma che non è dedicata a lui.

Federico Fioravanti