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Lo sguardo del demonio nella chiesa più bella di Perugia

Diario di viaggio, Luoghi
Autore: Fioravanti, Federico

Lo sguardo del demonio dentro la chiesa più bella di Perugia. C’è una storia avventurosa e ricca di mistero dietro un quadro, “riscoperto” sulla Rete, dopo oltre 400 anni grazie alla scrittrice perugina Emanuela Casinini, dipendente dei Beni Culturali e appassionata cultrice delle vicende della sua città.

Scorcio sul chiostro del complesso monumentale di San Pietro, da cui si accede alla chiesa

La grande tela, di quasi 90 metri quadri, sovrasta la porta d’ingresso di San Pietro ed occupa l’intera parete del tempio: l’Apoteosi dell’Ordine dei Benedettini dipinto nel 1592 da Antonio Vassilacchi detto l’Aliense, raffigura venerabili, pontefici, cardinali, vescovi, abati ed esponenti di altri ordini monastici legati al santo di Norcia.

Nomi e volti, all’epoca notissimi e di cui oggi si è perduta la memoria, fra i quali spicca, in posizione privilegiata, il grande papa San Gregorio Magno. Una selva di ritratti: quasi 300 religiosi, raffigurati oltre la grandezza naturale, che contornano l’immagine di San Benedetto. Avvinghiati al fondatore dell’ordine monastico, in un tripudio di colori, dal giallo ocra al nero, dal rosso al blu scuro. È un vortice di corpi, volti, tiare, bastoni pastorali, cappelli cardinalizi, lapidi, stemmi e libri sacri.

Un dipinto maestoso. Dopo Il Paradiso del Tintoretto, conservato nel palazzo ducale di Venezia, è forse il quadro più grande del mondo. Eppure le guide, per anni, lo hanno liquidato in modo sbrigativo: “Non presenta né originalità di impostazione né arditezze pittoriche e, tranne alcune figure di monaci viventi ritratti dall’autore, mostra chiaramente l’aridità di ispirazione…”.

UNO SGUARDO TRA LA FOLLA Ma al visitatore bastano pochi, lenti passi, per smentire il critico ed ammirare l’opera in tutta la sua magnificenza. Una breve passeggiata lungo la navata, fino all’altare maggiore. Bisogna volgere lo sguardo all’uscita del tempio. E osservare con attenzione. Gli squarci del cielo, nell’ammasso imponente delle figure, svelano il sole e la luna: sono la notte e il giorno e rappresentano il tempo che fugge inesorabile. Ma nella grande tela quei vuoti ombreggiati tra le figure dei religiosi si mutano in due enormi fessure: gli occhi di una bestia immonda che sembrano sfidare il visitatore.

A sinistra, il dipinto sopra il portale di ingresso della chiesa (foto: Remo Spoletini). A destra, la parte centrale della tela

San Benedetto, al centro del dipinto diventa un naso inquietante. Le bianche vesti degli abati che lo circondano appaiono come formidabili zanne. San Pietro e San Paolo, ai lati estremi del quadro, sono le orecchie aguzze del mostro. E in alto, i ciuffi nerastri delle figure dei sacerdoti, si trasformano nelle corna di un diavolo. L’impasto dei colori, i giochi di luce e le posture dei personaggi raccontano la parte superiore del volto: lo sguardo ferino di un “Caron dimonio, con occhi di bragia”.

Il richiamo a Satana arriva anche da un altro particolare: nelle orbite oculari scavate tra la folla dei benedettini, accanto alle pupille del Sole e della Luna, emerge il luccichio di Venere, la stella della sera perché è la prima che si vede, ma anche quella del mattino perché è l’ultima a spegnersi. Un corpo celeste che porta la luce. E proprio Lucifero è il nome dell’angelo che precipita dal Cielo e che la tradizione giudaico-cristiana dà al diavolo, grazie all’interpretazione, prima rabbinica e poi patristica di un celebre passo del profeta Isaia.

Antonio Vassillacchi, autore dell’Apoteosi dell’Ordine dei Benedettini

QUEL PITTORE STRANIERO Perché dentro un tempio cattolico, in un’opera così grande e così in evidenza viene raffigurato il diavolo? È la vendetta nascosta di un artista verso i suoi committenti ecclesiastici? O una critica occulta e feroce alla corruzione della Chiesa, preda del Male e dimora del demonio? Difficile che sia andata così negli anni spietati dell’Inquisizione. Soprattutto se si scava nella vita di Andrea Vassilacchi.

Il pittore nacque nell’isola greca di Milos. Era ancora un bambino quando la sua famiglia si trasferì a Venezia. Italianizzò il suo nome: da Vasilakis a Vassilacchi. Ma per tutta la vita fu più facile chiamarlo l’Aliense, lo straniero. Allievo di Paolo Veronese, amico e poi rivale del Tintoretto, era conteso dai committenti religiosi e dal governo della Serenissima per la serietà nel lavoro e per il carattere mansueto, così lontano dalle bizze di un artista “maledetto”. I suoi affreschi nel palazzo veneziano dei Dogi sono in quasi tutte le sale e superano per numero quelli di qualunque altro pittore. L’Aliense ebbe tre mogli, due figlie che poi diventarono suore e un particolare rapporto d’affetto con i monaci benedettini di San Giorgio Maggiore, che lo raccomandarono caldamente ai loro confratelli umbri.

E proprio a Perugia Vassilacchi dipinse anche la vita di Cristo con puntuali riferimenti al Vecchio Testamento: dieci grandi tele, collocate, cinque per parte, ai lati della navata centrale di San Pietro. Affrontò il faticoso ciclo pittorico subito dopo aver finito la grande tela dell’Apoteosi dell’ordine dei Benedettini, che portò a termine in soli 13 mesi. Lo stile del grande dipinto appare già più vicino al nuovo clima controriformista, che imponeva all’arte pittorica una visione più cupa e meno festosa rispetto al gioioso “rinascimento veneziano” dei Veronese e dei Tintoretto che pure Vassilacchi aveva tanto frequentato.

La nvata centrale della chiesa

IL DIAVOLO IN AGGUATO Dai gradini dell’altare maggiore l’enigma del quadro “dimenticato” per più di 400 anni si dipana lentamente. È proprio la bella porta lignea della chiesa che sembra completare l’opera dell’Aliense e chiarire una parte del mistero: l’ingresso di San Pietro, alla base della gigantesca tela, è la grande bocca che ingoia chi lascia la basilica per tornare alla vita di tutti i giorni. Come dire: “Extra Ecclesiam nulla salus”. Fuori dalla Chiesa, nel mondo abitato dal peccato, non c’è salvezza. E quel dipinto doveva ricordarlo ai fedeli all’uscita di ogni funzione religiosa dopo aver ascoltato la parola di Dio. È l’ossessione che segna il messaggio della Controriforma: il diavolo è in agguato, in ogni momento nella vita quotidiana e anche all’interno della Chiesa. Proprio per la mancanza dell’unità spirituale che la riforma luterana ha ormai irrimediabilmente spezzato, per quella eresia che bisogna combattere e vincere, con ogni mezzo. E soprattutto con la preghiera. In alto, al centro della tela, c’è una scritta in latino: “Mittam tibi adiutorium”. È l’oscura citazione di un passo biblico del quarto libro di Esdras, dove Dio parla ad Israele: “Io ti manderò in aiuto i miei servi Isaia e Geremia…”. Il soccorso di Dio arriva attraverso i profeti e la fede proprio nei momenti più bui.

La Profezia di Malachia

PROFETI E FALSARI Chi ispirò quelle parole dipinte dall’Aliense sulla fronte del volto demoniaco? Con ogni probabilità proprio l’uomo che per conto dei monaci perugini commissionò ad Antonio Vassilacchi il misterioso dipinto e che seguì accanto a lui la realizzazione dell’opera.

Era un dottissimo frate benedettino che all’epoca frequentava Perugia. Si chiamava Arnold Wyon. E di profeti se ne intendeva parecchio. Tanto che è passato alla storia per aver reso nota per la prima volta, nel suo Lignum vitae, la famosa “Profezia di Malachia”. È un criptico elenco di 112 motti in latino, riportato nel libro del monaco, nel quale vengono descritti tutti i papi e gli antipapi da Celestino II (eletto nel 1143) all’ultimo pontefice che, secondo la profezia, si chiamerà “Petrus Romanus” e il cui pontificato terminerà con la fine del papato e la distruzione di Roma.

L’opera continua ad appassionare inesauste schiere di cultori di apocalissi. Ma con ogni probabilità è un clamoroso falso, fabbricato con rara perizia durante il conclave del 1590 per favorire l’elevazione al soglio pontificio del cardinale orvietano Girolamo Simoncelli. Fatica sprecata: fu scelto un altro papa, il varesino Gregorio XIV. L’autore del perfetto apocrifo propalato dal Wyon fu, secondo lo storico Luigi Fumi, Alfonso Ceccarelli, il più famoso falsario italiano del Cinquecento, che per la sua fantasiosa attività di alteratore di pergamene, libri, codici ed alberi genealogici fu decapitato nel giugno del 1583.

Anche lui era un umbro, di Bevagna. Ma questa è un’altra storia.

Federico Fioravanti