Unica Umbria

Storia & Storie

San Pietro a Spoleto, un enigma di pietra

Diario di viaggio, Luoghi
Autore: Cementi, Vincenzo

Per il turista metropolitano di oggi, soprattutto se giovane, e come dice Marc Prensky “nativo digitale”, il portale romanico di San Pietro a Spoleto è una foresta di simboli, di allegorie e di storie misteriose.

Il visitatore della nostra epoca ne è subito colpito dalla bellezza, ma anche turbato, come Adso da Melk, l’imberbe novizio de Il nome della Rosa, alla vista dell’inquietante bestiario sacro del geniale canone narrativo di Umberto Eco.

San Pietro extra moenia (fuori le mura) è a poche decine di metri dalla statale Flaminia, all’entrata sud della città. Basta attraversare (con prudenza) la trafficata bimillenaria arteria, salire un’ariosa scalinata seicentesca e si è subito sopra una minuscola ma scenografica falda ai piedi del Monteluco, davanti alla facciata della basilica, risalente all’epoca tardo-romanica.

SanPietro1 SanPietro2

Il primitivo edificio sacro lo edificò il vescovo Achilleo, nel 419, al ritorno da Roma, quando riportò a Spoletium le reliquie delle catene di San Pietro, il principe della cristianità. Nei secoli successivi, molti i restauri ed i rifacimenti , soprattutto dopo l’incendio del 1329, attribuito ai ghibellini, in una delle più cruente battaglie cittadine. Desertificati e spogli appaiono oggi gli apparati architettonici e decorativi interni. Ma il prospetto frontale , della fine del duecento, è miracolosamente intatto.

LA BIBBIA DEI POVERI, UNA STRATEGIA DI COMUNICAZIONE MEDIEVALE Un grande apparato iconografico tutt’altro che decorativo od ornamentale. In realtà, una sorta di arcaico web portal di pietra. Fisso e non interattivo; costruito, però, in un’area strategica e secondo un preciso programma didascalico, educativo, per exempla.

Simbologie di pietra, resistenti ai secoli, per divulgare verità inoppugnabili e codici di comportamento atti ad ottenere la salvezza eterna. Alcune ricavate da calcari grigiastri (storie di San Pietro), altre da pietra locale di tonalità bianco/crema con sfumature dorate (favole e allegorie di animali).

Esplicito l’intento della committenza ecclesiale, che lo fece edificare di fronte al versante meridionale della cinta muraria cittadina, a pochi metri dalla frequentatissima consolare romana: colpire – in profondità – l’immaginario degli uomini – per lo più analfabeti- dei secoli medievali.

Una strategia di comunicazione perfettamente intuita da Camilian Demetrescu che qualche anno fa scriveva: “La Cattedrale in quanto Bibbia dei Poveri, presenta un’iconografia leggibile  nel Medioevo da persone prive di istruzione”. Nell’epoca di realizzazione del prospetto di San Pietro, infatti, alla base della conoscenza e del pensiero, c’era la parola parlata, la tradizione orale: da persona a persona, da maestro a discepolo, da padre a figlio. Per gli uomini di oggi, invece, abituati al sapere solo tramite l’alfabeto e la parola scritta, questi segni sono “codici enigmatici”. Della decodificazione di questo complesso didascalico, espresso in simboli, dobbiamo ringraziare studiosi come Bruno Toscano o Joan Esch , che ne hanno effettuato fondamentali letture.

LA PARTITURA DELLA DECORAZIONE SCULTOREA: UN ANTICO “TUTORIAL” PER LA REDENZIONE DELL’ANIMA Partendo dall’alto del prospetto, sono numerosi i rilievi scolpiti: tre i riquadri ad ognuno dei due lati sotto il timpano (i primi due in alto, a sinistra e a destra sono vuoti) su quelli inferiori, a sinistra la statua di San Pietro, a destra un’altra statua che Joan Esch cita come non identificata, mentre per Toscano rappresentala (con interrogativo) Sant’Andrea. Sotto ancora, su entrambi i lati, due tori, simbolo del Cristo, perché come lui destinati al sacrificio.

Particolare della facciata della chiesa di San Pietro a Spoleto. A sinistra del portale, le scene dedicate alla vita di San Pietro. A destra, formelle con storie di animali, tutte da interpretare

Altre sculture ai quattro lati del rosone centrale (ne resta solo la cornice musiva esterna): sono i simboli dei quattro evangelisti: da sinistra, sull’angolo inferiore, il leone alato per San Marco, su quello superiore, l’aquila con le ali aperte per San Giovanni. A destra, sull’angolo superiore, l’angelo che simboleggia San Matteo, su quello inferiore il bue alato, per San Luca. Due le formelle rettangolari poste sopra gli archivolti delle porte laterali: a sinistra San Michele che uccide il drago ea destra un vescovo (potrebbe essere l’edificatore della Basilica Achilleo?) con mitria, pastorale ed un libro.

Questa serie di rilievi non appare legata al programma didascalico complessivo della facciata se non per la motivazione della classica iconografia cristiana. Più preciso ed organico il piano “ educativo” scolpito ai lati del portale principale , che presenta gli stipiti e l’architrave ornati dal classico motivo a racemi . I tralci originano le loro volute da una croce centralmente posta sopra l’architrave e simboleggiano chiaramente l’arbor vitae, il Paradiso.

A lato di tale cornice, tre bassorilievi, alternati a due ordini di piccoli portici con archetti: nel primi due, in entrambi i lati dal basso, è raffigurato un contadino dietro i buoi, simbolo della fatica umana, conseguenza del peccato . Sopra il doppio ordine di archetti, la successiva coppia di formelle mostra a sinistra un cervo che divora un serpente. Stessa azione a destra, ma l’animale è una cerva che, contestualmente sta allattando un piccolo.

Secondo Esch, i cervi rispondono alla simbologia paleocristiana del battesimo e a quella medievale della Chiesa. Sopra l’ennesimo doppio ordine di archetti, su entrambi i lati, spicca un pavone, simbolo dell’immortalità. Chiaro per gli studiosi il senso iconografico complessivo: a partire dal basso, il cammino dell’anima dal peccato, alla redenzione, fino all’immortalità, al Paradiso.

Altri animali sono presenti sulla facciata: due aquile, simbolo base “universale” del rapporto con Dio, secondo Franco Cardini. Leoni e arieti in basso a fianco del portale principale e dei due laterali.

I bassorilievi dedicati alla vita di San Pietro

LE STORIE DELLA VITA DI SAN PIETRO Delle dieci formelle rettangolari con altorilievi, che affiancano l’entrata nella basilica, solo quattro, quelle più in alto (due per lato) contengono fatti ed azioni legate alla figura del Santo celebrato nella basilica .

La prima, dall’alto a sinistra, è una clip di “sapido e stringato gusto narrativo”, come osservava qualche decennio fa Bruno Toscano nel suo insuperato L’ Umbria – Manuali per il territorio: San Pietro libera il giusto dai ceppi (morte del giusto), e la bilancia del giudizio pende dalla parte di San Michele Arcangelo. Ma un demonio con tanto di – singolare – fumetto esplicativo (impugna un cartello con scritto DOLEO Q[UIA] AN[TE] ERAT MEUS , MI DOLGO PERCHÉ PRIMA ERA MIO), cerca di “rubare sul peso”, facendo inclinare il piatto della bilancia verso la dannazione. San Pietro però lo colpisce con la sua inseparabile, enorme chiave.
Nonostante la presenza drammatica del morto, la scena è quasi comica . E l’interrogativo sorge spontaneo: ma se era un “ giusto”, un uomo per bene, perché pesarne meriti e colpe sui piatti della bilancia? Forse perché, anche se era un uomo onesto, si era convertito, battezzato e quindi salvato, solo in fin di vita?

La seconda narrazione di San Pietro, sotto la prima, sempre a sinistra, è di immediata comprensione: rappresenta la morte di un peccatore, probabilmente non credente: due inquietanti demoni straziano il suo corpo, mentre all’estrema sinistra della scena è scolpito un altro corpo: ”l’anima” del dannato secondo gli studiosi, già per metà immersa in un infernale calderone.
Nel frattempo, sul lato destro della formella , l’Arcangelo si allontana con espressione disgustata.

Sempre in alto , ma sul lato destro del portale, altre due storie assai più comprensibili: nella terza , a sinistra nel rilievo, il Salvatore lava i piedi a San Pietro; dall’altro lato, il Cristo ripete l’atto evangelico della lavanda a S. Andrea. Nella quarta formella i due santi, Pietro ed Andrea, si imbarcano alla volta del Cristo su una navicella salvifica: è l’immagine che rappresenta la vocazione sacerdotale.

ANIMALI DELLA TERRA, ANIMALI DEL CIELO, ANIMALI ENIGMATICI Ma i protagonisti più misteriosi ed interessanti di questo grande “libro di pietra” sono, per la maggior parte, animali. Umanizzati, orridi, fantastici o reali. Animali della Terra e animali del Cielo.

Gli animali, veri protagonisti delle storie di pietra della chiesa di San Pietro a Spoleto

Metafore assolute del Bene e del Male, secondo il decalogo cristiano. Ed è – di fatto – più complicata l’interpretazione delle altre sei formelle, tre per lato sui fianchi dell’ingresso alla basilica, dove vari animali o uccelli interagiscono tra loro o con l’uomo. Tutti riconducibili ai bestiari ed alla letteratura favolistica medievale e da quella universale enciclopedia di storia naturale dell’antichità che fu il Physiologus ( Alessandria II d.C.). Un trattato che, dando origine ad una ricca serie di copie e trascrizioni, divulgò in tutto l’occidente cristiano le caratteristiche del mondo animale.

Per circa un millennio, e soprattutto in epoca medievale, fu utilizzato in chiave allegorica , secondo il simbolismo cristiano. L’impianto iconografico romanico di San Pietro trae origine dalla vasta produzione conventuale dei bestiari derivati dal Physiologus in connessione con l’altrettanto diffusa circolazione delle favole attribuite da Erodoto ad Esopo di Samo ( VIII, VII a.C.). Esse divennero “letteratura popolare educativa” verso la fine del Duecento. Joan Esch sottolinea che i bestiari non ebbero solo un ruolo nella letteratura, nella didattica e nella satira medievale, ma dettero anche origine ad un eccezionale movimento artistico, penetrando presto nella scultura, nella pittura murale e nell’ornato. Il merito originario fu di quegli eccezionali produttori e divulgatori di cultura e conoscenza che furono i monaci medievali, soprattutto quelli appartenenti alla Regola del nursino San Benedetto.

Non si può non andare con il pensiero al capolavoro di Umberto Eco, Il nome della rosa, un bestseller che, nella nostra epoca, ha raccontato al grande pubblico l’epocale diffusione della conoscenza promossa per secoli dagli amanuensi (dal latino servus a mano), nel silenzio degli scriptoria conventuali. Geniali copisti e miniatori di uno sterminato universo librario manuale che , secoli prima dell’invenzione del libro stampato, scongiurò la distruzione barbarica del sapere – religioso e profano – dell’antichità.

LE PROBLEMATICHE STORIE DEI LEONI: ESEMPI MALVAGI O SIMBOLI DEL BENE? Le tre formelle del lato sinistro dell’entrata principale della basilica, una sopra l’altra, hanno, come protagonisti delle tre scene, altrettanti leoni.

Nella prima, a partire dall’alto, sempre a fianco dell’ingresso, un taglialegna con in mano una scure è di fronte ad un leone che presenta la zampa anteriore destra intrappolata nella fessura di un tronco. Bruno Toscano la riferisce alla favolistica medievale che sancisce la “ supremazia dell’uomo sul demonio”, qui simboleggiato nel leone.

La terza formella del lato sinistro della facciata, con un leone che assale un guerriero armato di spada

Nella seconda formella a scendere, un leone fronteggia un uomo genuflesso e nella terza un leone assale un guerriero armato di spada, ma ormai a terra, e ne addenta il capo. Entrambe queste due ultime scene “seguono il racconto di un noto bestiario toscano“ ed hanno la stessa morale: Dio in questo caso il leone) ha pietà per l’umile genuflesso, non verso il guerriero che lo sfida in armi (anche qui il leone raffigurerebbe Dio).

Diversa e più articolata l’analisi di Joan Esch, che rilevando le somiglianze delle due figure umane raffigurate le riferisce ai due tempi di uno stesso racconto: nel primo rilievo l’animale supplica l’uomo di liberarlo con la scure dal tronco che gli imprigiona la zampa e poi, nella seconda formella, ingrato, lo assale.

Ed ecco l’enigma: nei bestiari medievali il leone appartiene sempre a storie di “animali grati”: come le storie che derivano dai racconti di Apio l’Egiziano. Molto noto e diffuso, a tal proposito, quello dello schiavo Androclo che estrae la spina dalla zampa del leone.

In tempi successivi, quando lo schiavo affronta l’animale nell’arena, il leone non lo assale, ma lo lecca riconoscente. Riferendosi a Jaufrè de Vigeos, Alessandro Neckam, Chretien de Troyes, medievali narratori di storie di leoni “grati”, Esch conclude con un’ipotesi interpretativa univoca per le tre formelle spoletine: un boscaiolo salva un leone in trappola (prima scena); quando lo rincontra si aspetta di essere aggredito, ma la bestia lo rispetta (seconda scena); il leone, anzi assale e divora il guerriero che – forse – aveva aggredito il buon boscaiolo (terza scena).

Forse, scrive Esch, un manoscritto perduto è alla base del senso di queste allegorie. Ma, più credibilmente, c’è un altro significato nascosto. Più importante dal punto di vista dell’intento didascalico- religioso e che giustificherebbe la collocazione di queste scene in uno spazio così importante della partitura iconografica della facciata romanica.

A nostro avviso, va ricordato che il leone (alato) è proprio della simbologia delle Scritture: sin dal V secolo è lui il simbolo dell’evangelista Marco. E’ infatti nel Vangelo di Marco che viene narrato il maggior numero di profezie della resurrezione di Gesù e l’animale – per la sua forza- rappresenta la “nuova nascita” del Cristo.

San Gregorio Magno, uno dei Padri della Chiesa, rafforza questa interpretazione sottolineando che il Vangelo di Marco inizia con la voce di San Giovanni Battista che si eleva nel deserto come un ruggito leonino preannunciando agli uomini la venuta di Gesù.

Si pensi, infine, alla diffusione dell’immagine del leone alato, simbolo di forza regale e coraggio con la celebre frase scritta PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS. Ben oltre il millennio di storia della Serenissima Repubblica di San Marco, nella vasta area geografica dall’Adriatico al Mediterraneo orientale, il leone alato con il motto marciano, scolpito su pietra, inciso, stampato o dipinto ne è stato la rappresentazione iconica politica e militare, più diffusa e conosciuta ed ancor oggi è l’emblema dell’identità storica e culturale di Venezia e del suo territorio.

ALTRI RACCONTI, ALTRI SIMBOLI, ALTRI MISTERI Ma altri misteri interpretativi ci attendono nelle altre tre formelle sul lato a destra dell’entrata della Chiesa.

Nella prima, in alto, una volpe si finge morta e due corvi si avvicinano per divorarla a colpi di becco. È chiaro che la volpe , finta preda , ne farà il suo pasto. Bruno Toscano riferisce la scena al Physiologus, dove la volpe è simbolo del demonio che attira gli uccelli, e cioè le anime, con l’esca della carne. Esch ritiene che la scena della “volpe astuta”, assai presente con diverse varianti nei bestiari, sia tratta, nel caso spoletino, dal più antico Physiologus illustrato: quello di Berna (IX secolo).

Le tre formelle sul lato destro del portale, dedicate a scene animali

Nella formella di mezzo l’allegoria è assai più complessa: in scena due animali : uno strano lupo che indossa una specie di mantellina con cappuccio e che è distolto dalla lettura di un libro dall’invitante presenza di un montone. E’ la favola del “lupo a scuola” nella versione che Toscano attribuisce alla celebre poetessa bretone Marie de France (vissuta alla fine del 1100 alla corte di Enrico II d’Inghilterra e di Eleonora D’Aquitania).

Soprattutto Esch , ma anche diversi altri studiosi, interpretano le molte varianti del racconto come una esplicita satira ai vizi del clero. Ciò in ragione dell’abbigliamento del lupo, interpretato da tutti, come un saio. In effetti, il lupo del racconto di Marie de France cerca effettivamente di intraprendere la professione ecclesiastica, ma imparando a leggere e compitando il suo ABC, tradisce la sua indole vera e già alla lettera A come agnello rivela la sua irriducibile natura predatoria.

Ma l’intento satirico sul clero, per la scena della facciata di San Pietro non convince del tutto, anche perché la mantellina con lo chaperon a punta (liripion) era un capo di vestiario popolare, comune non solo ai chierici ma anche ai laici. Al di là dell’utilizzo degli animali come mezzo di trasmissione della satira in tutto il Medioevo, per spiegare la formella di San Pietro basterebbe , a nostro avviso, risalire al motto Lupus mutat pilum, non mentem (il proverbio diffuso anche nel nostro tempo Il lupo perde il pelo, ma non il vizio) assai comune nell’epoca medievale. La derivazione, però, è anteriore, dal proverbio attribuito a Svetonio che però lo riferiva alla volpe (Vulpem pilum mutare, non mores).

L’ultimo rilievo in basso, infine, presenta un’altra scena non priva di interrogativi: Bruno Toscano non ha dubbi e la cita come  “il leone che combatte contro il dragone”, e qui il leone è simbolo del Cristo. Il drago, ovviamente , rappresenta il male, il demonio. Esch invece sottolinea le differenze con i leoni delle altre formelle che hanno le zampe e il corpo più possenti, mentre la belva che assale il drago alato è più magra e ha il corpo più liscio: è forse una pantera ? Sembrerebbe di sì, perché, spiega Esch, nei bestiari non c’è traccia di leoni che combattono contro il drago. Al contrario, nelle pagine dei libri medievali, la pantera è sempre un animale “gentile” ed è rappresentata spesso in lotta con il dragone.

A nostro avviso l’antico scultore della scena voleva rappresentare proprio una pantera come simbolo del Bene in lotta perenne con il Male, ma forse conosceva l’animale solo attraverso le approssimative immagini illustrate nei bestiari, forse nei codici miniati, dove la fantasia dei compilatori e degli amanuensi copisti suppliva alla scarsa o nulla familiarità con l’animale reale. Esch fa notare anche il particolare delle fauci spalancate: un atteggiamento tipico della pantera, secondo le credenze medievali legate a tali fonti .

Veduta laterale del complesso architettonico di San Pietro, immerso nella campagna spoletina

UNA STUPEFACENTE ICONA DEL PENSIERO MEDIEVALE La straordinarietà della facciata della basilica spoletina, senza dubbio una delle più belle del Romanico in Europa, o come scrive Toscano ove ”il romanico locale raggiunge un’eccezionale maturità” sottolineandone la partitura di respiro “quasi quattrocentesco”, per noi semplici visitatori del ventunesimo secolo è esemplificata in queste favole di pietra ricche di enigmi e di contenuti emozionali.

Otto secoli fa era proprio questo il modo più efficace, più diretto per educare e fidelizzare al messaggio cristiano la moltitudine della gente comune, incapace sia di leggere che di scrivere.
Per questo San Pietro è uno dei più importanti monumenti spoletini. Una stupefacente icona del pensiero medievale, dove, osservava Jacques Le Goff, “ogni oggetto materiale era considerato come la raffigurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più elevato e diventava così il suo simbolo.” “Il simbolismo – scrive Le Goff – era universale, e il pensare era una continua scoperta di significati nascosti, una costante “ierofania”.

Vincenzo Cementi