Lasciatevi spellizzare
Poche città descrivono una condizione di distacco dal mondo come Spello. Distacco da Foligno, in realtà distante solo tre chilometri, una volta attraversato il torrente Chiona. Distacco da Assisi, collegata da una stradina sommersa dagli ulivi e praticabile senza sforzo a piedi, perché Spello e Assisi sono sdraiate sulla medesima quota collinare del Subasio, la montagna contesa. Gli spellani continuano a domandarsi spavaldamente cosa manchi ad Assisi per essere Spello. È presto detto. I cugini di versante recriminano la perdita d’identità della loro città universale, contaminata dal turismo religioso.
Spello la sua identità la conserva intatta. Per accorgersene basta percorrere le viuzze che raccontano una storia di violente conquiste, oggi abitate da una collettività vitale, integrata con un sistema d’accoglienza rispettoso dei luoghi. Spello è riuscita a contenere gli effetti più molesti del turismo attraverso l’arte discreta dell’ospitalità, che è come il coraggio: se non ce l’hai nessuno te la può dare.
I contrasti si manifestano anche attraverso il paesaggio. Il fianco esposto al calar del sole, che a guardarlo promette di realizzare il sogno della dolcezza del vivere, s’esprime con il luccicare roseo della pietra del Subasio. Il fianco di levante, altrettanto bello, è più cupo, soprattutto nelle ore serali, quando le ombre risalgono il corso del torrente Chiona punteggiato di querce secolari.
Anche il carattere degli spellani si rivela nella sua duplicità, manifestandosi dapprima in una ruvidezza schiva, in una ostinata diffidenza verso ogni innovazione proveniente da un altrove invisibile dal proprio orizzonte, in una generosità raffrenata, per assumere poi – inopinatamente – le forme della veemenza passionale e della carnale disposizione godereccia.
Stringere amicizia con uno spellano equivale ad una conquista. Si può essere ammessi alle più esclusive mense, alle più riposte confidenze, ma solo dopo una accurata selezione, come accade per certe società segrete. L’adepto è introdotto nei luoghi più gelosamente nascosti, quali sono i mulini ipogei, gli scantinati, i sottoscala ornati da affreschi, mosaici e resti di vestigia romane. Può addirittura capitargli di essere ammesso nelle chiuse sacrali degli ulivi, dove crescono i rari “rampunzoli”, che nei mesi invernali non mancano mai sulla tavola spellana.
Chiedetelo a Elvio Marchionni, l’ultimo pittore di fama internazionale residente in paese, geloso custode delle mappe officinali di quei terrazzamenti che salgono da fonte della Bulgarella fino a Collepino. Egli potrà anche accogliervi sorridente nel suo atelier di via Giulia, mostrarvi le opere che sta portando a compimento, ma non vi rivelerà mai le poste di pimpinella, caccialepri e crispigni.
Eppure a saperci fare non è difficile entrare nelle simpatie di uno spellano. Ma che si sappia in giro. Se accedervi è privilegio destinato a pochi, quasi una grazia ricevuta, uscirne è decisamente più facile, perché egli non digerisce i torti subiti. Oggi che i luoghi si sono trasformati in villaggi globali, il turismo socializzante è divenuto un bisogno primario.
Spello è in grado di garantire tutto questo. Una volta ammessi al club ci si accorge che i suoi abitanti sono i precursori, mai scontati, di un sistema turistico integrato. Come Sante Castignani, fotografo di Borgo, con una bottega all’antica di quelle che non se ne trovano più. Egli è prodigo di preziose informazioni per il turista, ma solo se è di giornata buona. Da che mondo è mondo le persone che abitano i luoghi, mantenendoli vivi, costituiscono un valore indispensabile all’esperienza di chi viaggia.
È così che gli spazi assumono un significato straordinariamente neorealista, al punto che tale rapporto agevola la sperimentazione diretta e la comprensione del “genius loci”. Solo così le Torri di Properzio, la cappella Baglioni, la porta Consolare e il quartiere di Vallegloria, rivivono nel tempo, mentre la città diviene il riassunto della sua stessa storia, il magazzino della memoria. Ma anche l’oralità, il gusto della fandonia, l’aneddoto mai scontato, il racconto mai ripudiato, che si perpetua nel linguaggio diretto e alato degli eredi di quel Vittorio Merendoni, cameriere di ristorante, al quale dovrebbero erigere un monumento, perché che la sua fama e la sua simpatia hanno portato a Spello tanti turisti quanti ne hanno portati le infiorate.
Dicasi lo stesso per Carlo Carretto, fondatore dei Piccoli Fratelli sparsi per i romitaggi del Subasio e per Norberto Proietti, già sarto, poi caposcuola dell’arte Naif, fenomenali promotori dell’immagine di questa città centripeta e vorticosa, sfrontatamente autoreferenziale, fino ad avocare a sé – folcloristicamente parlando – i fasti di Roma. Che si sappia in giro.
Spello fu capace di costringere il riottoso fotografo Steve McCurry a tornare in fretta in Italia per immortalare una tardiva infiorata allestita lungo il borgo, perché non ne mancasse traccia nel portfolio dedicato all’Umbria. La città è anche rassicurante, ispiratrice e discreta, al punto da indurre un cantautore riservato come Francesco De Gregori a trovarvi, tra ulivi e cinghiali, il suo solatio buenretiro.
E se essa colpisce l’occhio (soprattutto al tramonto, quando la tetta del Subasio entra in contrasto col gaio luccichio delle finestre
dei Cappuccini, immemori dei tanti vespri recitati) è allo stesso tempo ctonia e ipogea al pari dei suoi ornamenti musivi, che spuntano a ogni colpo di ruspa. Può capitare che talvolta si mostri come una splendida meretrice che intenda vendervi qualcosa. Non sacrilega, intendiamoci, ma nemmeno falsamente puritana come la collega di versante, Assisi.
Coloro che di questo paese cercano la forza vitale, s’addentrino per le piazzette e per i vicoli straripanti di vasi fioriti. Si inerpichino per i sentieri dell’acquedotto romano, si appaghino della visione di quella stessa bellezza che ben si concilia, a fine passeggiata, con un sano appetito.
Tra i fornelli di Spello la tradizione culinaria umbra riprende lena. Da queste parti la cucina è ancora portatrice di nerbo e di umori, perché bastano un acquazzone d’Aprile, una sperella di sole, quattro uova fresche e un mazzetto di asparagi di monte per ritrovare spunti di autentica felicità.
Occorrono molte luci accese sulle finestre, molte gelaterie, molti ristoranti, molti ragazzini che d’estate giocano sui lucidi selciati di pietra per decretare la vitalità di un piccolo centro storico. A voi occorrono ancora molti passi. Per comprendere appieno la spellanitudine vi occorre superare molte discese e salite, di quelle che tonificano i glutei delle fanciulle locali.
Tra molti anni, quando la storia dei paesi sarà studiata con attenzione e assunta quale emblema di un’epoca di grandi rimpianti – il fine Novecento – Spello avrà retto all’impatto e offrirà ancora lo scenario impareggiabile della sua gente. Rimarrà da sola a rappresentare l’espressione terminale di una civiltà con una letteratura decadente, che trova il suo classico nell’eponimo di Vittorio Merendoni, filosofo senza titolo, che si spostava malvolentieri dalle anguste mura di casa, consapevole che al loro interno vi fosse tutto quello di cui un uomo potesse necessitare, convinto che ad emanciparsi non dovesse essere lui, ma che toccasse agli altri di spellizzarsi. Come dargli torto?
Giovanni Picuti