Unica Umbria

Intervista a Marco Bistarelli

Curiosità

“Il gesto di aggiungere un buon filo d’olio a un piatto credo sia uno dei più semplici ed eleganti che si possano vedere in cucina”.

Esuberante, eclettico, trascinante. Marco Bistarelli, celebre e celebrato chef de Il Postale del Castello di Monterone a Perugia, non tradisce le aspettative. Una chiacchierata con lui è un viaggio ad alta velocità nel mondo dell’alta ristorazione, un percorso suggestivo nel mondo del gusto, un tour eccitante nel pianeta dei grandi prodotti italiani in generale e dell’extravergine di oliva in particolare.

Ma come nasce Marco Bistarelli chef?
In famiglia, da piccolo. Quando con i miei si andava a vedere uccidere i maiali e io mi incantavo a vedere come si “smontava” quel meraviglioso animale, quante cose se ne potevano tirare fuori. È una cosa che mi è rimasta dentro anche perché io sono convinto che i ricordi dell’infanzia sono quelli che restano e ti accompagnano per tutta la vita. La naturale evoluzione di questa sorta di illuminazione è stato iscrivermi alla scuola alberghiera ma iniziando in sala, perché la cucina ancora non mi era entrata nell’anima. Ricordo ancora i tour europei, nei grandi alberghi, con il professore a farci da guida.

Quelli che ora si chiamano stage.
Ma quali stage! Si lavorava sul serio e si imparavano mille cose a prezzo di fatica e sudore. Adesso ci sono ragazzi che arrivano e ti presentano dei curriculum impressionanti. Poi li testi e scopri che sanno ben poco, che hanno fatto appunto degli stage dove, più che altro, hanno accumulato una serie di nomi noti da presentare poi appunto nei loro curricula, ma che in realtà di esperienza concreta ne hanno ben poca.

Ma quando e come avviene il passaggio dalla sala alla cucina?
Nel 1990, in seguito a un fatto tristissimo. Perché era mio fratello gemello quello appassionato di cucina. Ma purtroppo lui viene a mancare giovanissimo, appena venticinque anni e, in qualche modo, io prendo il suo posto. Le prime esperienze nella pizzeria dei miei e poi una costante crescita, certamente aiutata dall’incontro con Vincenzo Cammerucci, uno cresciuto al fianco del grande Gualtiero Marchesi. È stato con Cammerucci che ho posto le vere basi del mio futuro di chef: affinando le tecniche ma, soprattutto, imparando l’importanza fondamentale delle materie prime, comprendendo l’importanza di conoscere personalmente i fornitori. Quello è stato il mio ingresso nel mondo dell’alta ristorazione, lì ho compreso quanto fosse determinante lavorare giorno dopo giorno, eliminando il superfluo e mantenendo la sostanza.

Fino ad arrivare a oggi, a questo splendido ristorante nel cuore dell’Umbria meta di appassionati e gourmet. Cosa rappresenta per te l’Umbria?
Tutto, semplicemente tutto. È un luogo diverso, a suo modo unico. E una miniera di prodotti, di eccellenze straordinarie. Non a caso quando posso cerco di utilizzare i prodotti del mio territorio. Che scopro grazie a una ricerca capillare che non si limita a quella scontata del prodotto stesso ma va oltre, tocca le persone. In certi casi quello che metto in atto con i produttori è un vero e proprio “matrimonio” perché dobbiamo condividere una filosofia comune, pensare di realizzare insieme un progetto che ha come base questo desiderio di proporre qualità ai massimi livelli, anche a costo di fare dei sacrifici. D’altra parte per uno chef la materia prima è determinante, è quel quid che ti aiuta a esprimere quello che pensi, quello che sei. Ed è anche per questo che amo tanto l’Umbria, perché mi fornisce tanto materiale, è una regione potentissima, con forti valori rurali che però bisogna saper mettere bene a fuoco.

Abbiamo parlato di prodotti e non posso non farti una domanda sul tuo rapporto con l’olio extravergine di oliva.
È un rapporto assoluto, totalizzante. Ti ho detto quanto contano per me i ricordi dell’infanzia? Uno dei più belli è quella fetta di pane e olio extravergine con sopra il pomodoro strisciato che mi davano per merenda e del quale riesco ancora a sentire il profumo e il sapore. Io credo che il gesto di aggiungere un buon filo d’olio a un piatto sia uno dei più semplici ed eleganti che si possano vedere in cucina. Ma bisogna fare attenzione, perché l’extravergine richiede cultura e conoscenza. Non a caso io ho un carrello degli oli nel mio locale e conosco benissimo ogni singolo produttore. E ognuno di loro l’ho scelto perché interpreta il mio modo di vedere l’extravergine. Pensa solo a tutte le cultivar che esistono nel nostro Paese,così diverse tra loro, perfette per creare un tracciato di cucina.

Posso dire che talvolta la ristorazione, anche quella di alto livello, mi sembra poco attenta all’extravergine.
Purtroppo non posso darti torto. Ed è un vero peccato perché stiamo parlando di un ingrediente che da solo è in grado di modificare un piatto, di esaltare una ricetta. Eppure molti si appiattiscono su scelte banali e non fanno quella ricerca che è essenziale.

Immagino che l’extravergine umbro rappresenti per te un must.
Direi proprio di sì. La mia prima folgorazione sull’extravergine l’ho avuta proprio assaggiando un Moraiolo umbro che, da allora, è rimasta la mia cultivar preferita.

Dimmi una ricetta che esalta questa tua grande passione per il Moraiolo.
Coscia di maialino. La irroro di Moraiolo, poi lavoro con carote, sedano, salvia e timo. Infilo il tutto in una busta e la cuocio a bassa temperatura. Quindi taglio la carne a cubetti, procedo con una lunga cottura, circa 8 ore e lì inizi a sentire il Moraiolo che lavora, regalando sensazioni olfattive pazzesche. Alla fine aggiungo una mela al brandy, montata con Moraiolo… che dici, mi piace o no questa cultivar?

Pare proprio di sì. Ne hai un’altra che ti emoziona in modo particolare?
La Taggiasca ligure. Anche questa è legata a un ricordo di tanti anni fa, quando mi fecero assaggiare una pagnottona di ceci sulla quale misero un filo di extravergine da oliva Taggiasca. Non me la sono più dimenticata.

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