Unica Umbria

Raccontami l’Umbria

Edizione: 2019 Le pinoccate perugine: un natale di zucchero e pinoli

Enogastronomia
Autore: Badolato, Marilena

Di prezioso zucchero e ancor più preziosi semi, i pinoli, ritenuti afrodisiaci per forma e dolcezza della lattescenza, le pinoccate, dalla simbologia beneaugurante e dal colore virginale, erano presenti durante gli antichi sponsali nobiliari. E la forma a losanga ne rivela la natura originaria di “dolce da lancio”, golosità che venivano realmente lanciate in occasione delle grandi feste e nei “tornei d’arme” di epoche lontane. Le nostre pinoccate indicano, nel nome, la natura dell’ingrediente base -il pinolo – un tempo chiamato anche pinocco (lo troviamo così citato in Domenico di Giovanni Burchiello e persino in Gabriele D’Annunzio), da non confondere, a Perugia, con le pinolate, deliziosi “amaretti” cosparsi di pinoli.

Del resto il Pinus pinea, pianta affascinante per l’irresistibile acre odore della resina, quell’inimitabile profumo degli aghi sparsi sulla terra bagnata e grandemente diffusa nell’area mediterranea, ha accompagnato la storia millenaria di molte città italiane dai primi stanziamenti etruschi ai fasti augustei, dalla trafila garibaldina (si pensi che Garibaldi stesso piantò uno di questi esemplari nella casa bianca di Caprera) alla seconda guerra mondiale, sino al prezioso verde urbano. Albero dei Frigi, popolo dell’Anatolia centrale, che lo adoravano non solo per la bellezza sempreverde, ma anche perché con i suoi frutti preparavano un vino inebriante, in Grecia, durante le feste propiziatorie di fertilità, alcune pigne ancora chiuse venivano gettate in fosse scavate nella terra a simboleggiare con la loro forma l’attributo maschile ancora gravido del seme. Albero sacro agli Etruschi per la particolare forma delle pigne esotericamente paragonate all’uovo, oggetto simbolico particolarmente caro a questo popolo.

Non dimentichiamo poi l’uso di cospargere di resina sigillante i contenitori che portavano il vino per terra e per mare, donando così al nettare di Bacco uno straniante aroma di pineta mediterranea. Nel mondo latino Ovidio elogiava i pinoli nella “Ars amatoria” come uno dei pochi cibi capaci di favorire l’amore, mentre Plinio scriveva: “i pinoli spengono la sete, calmano i bruciori dello stomaco e vincono la debolezza delle parti virili”. Quasi mille anni dopo, il medico e filosofo arabo Avicenna, sentenziava con autorità che i pinoli aumentavano lo sperma e provocavano il coito. Nel Medioevo, non era raro trovare pigne decorative su palazzi ed edifici religiosi, con il medesimo significato originale di eternità derivata dal ciclo vitale. Quindi motivi mitologici, magici e medici contribuirono sin dall’antichità a dare origine alla fama ai suoi frutti, i pinoli, come straordinari potenziatori di fertilità, tanto da renderli preziosa merce di scambio.

Secondo un’attestazione di Bartolomeo Scappi, il Plàtina, cuoco personale di Papa Pio V, la fiducia nelle virtù afrodisiache di questi frutti crebbe enormemente a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Nei suoi banchetti di complessa architettura, “per finire il pasto dalla credenza serviva losanghe di mela cotogna, confetti lisci, ricci, grossi e confettini di ogni sorte, pinocchata, confettura varia, frutta e verdura confettata” (da: “Pesci, barche, pescatori nell’area mediterranea dal medioevo all’età contemporanea”, a cura di Valdo D’Arienzo e Biagio Di Salvia- Franco Angeli – Milano 2010. Cap. Lo storione e il pescato sulla tavola rinascimentale di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V, di June Di Schino, pag. 545).

Del resto allo zucchero stesso erano attribuiti effetti benefici: i frutti canditi “cedri, mandorle et noci confecte” appartenevano a una serie di preparazioni di derivazione araba a cavallo tra dolciaria e farmacologia, così le confetture di frutti freschi, sia interi (noci e mandorle immature, pesche, datteri e mirabolani), sia ridotti in pasta (zucca, mele cotogne) ed anche la famosa zinziberata (radice di zenzero fresco candita). Il latino condere, mettere insieme, indicava in generale l’aggiunta di ingredienti per la cottura, ma trovava particolare applicazione nei preparati a base di zucchero (e miele), e il participio passato condito si riservava di preferenza alle confetture morbide in antitesi ai confetti da confectare, a sua volta da conficere– fare, compiere, concludere-, detto di cose finite e che si conservano (come i confetti).

E’ forte infatti il legame con lo zucchero introdotto dagli Arabi in Sicilia e diffusosi poi in tutto il continente, dapprima con il nome candi e poi zuccharo candi, e questa suggestione linguistica motiva poi la trasformazione di condito in candito, tardiva e dotta. Così il Mattioli a proposito dello zenzero candito; “portasi il gengevo a i tempi nostri da Calecut famosissima città dell’India …non solamente secco in grandissima copia, ma condito verde nel zuccharo, overamente nel mele…et questo è molto più eccellente di quello che si condisce secco in Vinegia e altri luoghi d’ Italia”. ((Pietro Andrea Mattioli, “Discorsi”). Si trattava di procedure lunghe e complesse che difficilmente venivano realizzate in casa, mentre si preferiva comprare i prodotti già confezionati dagli speziali, sebbene merce piuttosto costosa. Le pinocchata le troviamo già attestate in documenti trecenteschi nel registro fiorentino delle “Spese per la mensa de’ Priori” (1344) dove la precisa destinazione e l’attento dosaggio sembrano segnalare un utilizzo medico, e dove compaiono acquisti di cedriata, cotognato, pinocchata, zuccata, oltre a morselletti, trigea, anici confetti (in G. Frosini “Il cibo e i signori. La Mensa dei Priori di Firenze nel quinto decennio del sec. XIV”, Firenze, 1993, p. 152.).

E sembra che furono preparate in occasione del banchetto nuziale che ebbe luogo nel 1397, allestito con grande sfarzo e con la spesa di 10.000 fiorini, per gli sponsali di Biordo Michelotti con Giovanna Orsini nella Sala papale della cattedrale di San Lorenzo a Perugia. Le pinoccate compaiono anche nel “registro per le spese” dei fondi archivistici e librari dello Studium Perusinum che trattano le carte attinenti all’amministrazione del Collegio studentesco della Sapienza Nuova di Perugia. Qui si registrano informazioni sia sulla produzione agricola delle terre appartenenti alla Istituzione, sia sulle spese sostenute per la tavola alla quale mangiavano personale amministrativo e studenti collegiali, e persino malati ricoverati, poichè tra gli enti amministratori della Sapienza vi era anche il Collegio della Mercanzia che comprendeva un Ospedale.

Dal percorso: “Il cibo e le carte, XVIII- XIX secolo– Spese di cucina dal 7 novembre 1794 al 16 giugno 1795” (ASUPg, Sapienza Nuova, Libri di cucina, registro n. 39. Vacchetta cartacea con legatura in cartone) e precisamente nelle ultime due carte, leggiamo le “spese straordinarie” per cibi particolari: pomi d’oro, cioccolata, parmigiano (ben distinto dall’altro formaggio di seguito annotato), e anche spezie come zaffarano, il pepe in più volte, i garofoli (chiodi di garofano), la canella ormai uscite dall’uso medicinale ed entrate stabilmente in cucina a donare aroma ai piatti. E la presenza di dolci e bevande per occasioni speciali, come le pinoccate per il periodo natalizio e ancora rosolio, sorbetti, neve che serviva per rinfrescare i cibi durante la stagione calda, che probabilmente proveniva dalla neviera di via Appia, dove nel cunicolo della postierla era conservata la neve per l’uso estivo, o dalle neviere del Monte Tezio.

Dal caratteristico incarto” a caramella”, in origine solo bianche come semplice impasto di zucchero e pinoli posto su ostie, poi nei due colori presenti anche in dolci antichi italiani, le pinoccate attestano tradizioni artistiche d’origine orientale e trovano riscontro nella cosiddetta decorazione “a balzana”, ossia a fasce accostate di colori fortemente contrastanti, nota in architettura nei rivestimenti marmorei, nelle arti decorative in stemmi, scudi, stendardi, gonfaloni, costumi, nei giochi come la dama e gli scacchi, nelle fazioni dei Bianchi e Neri delle città italiane nel Medio Evo. Il bianco in cucina si otteneva con la farina di riso, il latte di mandorle, la mollica di pane.

Il colore nero, non così usuale, si otteneva dal mallo delle noci, ricco di tannini e ancora da bacche come il mirtillo nero, more, uva nera, prugne. Ovviamente, dopo la scoperta del Nuovo Mondo, il nero sarà regalato dal cioccolato che avrà la sua massima diffusione tra il Seicento e il Settecento e donerà una impronta armonica ed equilibrata alle dolcissime pinoccate. La forma a losanga, che raddoppiata dà vita all’ottaedro regolare, uno dei cinque solidi platonici, serbava significati allegorici, trascendentali, ma al tempo stesso consapevoli delle capacità dell’uomo faber fortunae suae. Al gioco antico dei due colori si accompagna oggi, con perfetta rispondenza, il gioco dei due sapori: più sottile, aromatico e freddo il bianco alla vaniglia; più denso, corposo e caldo il nero al cioccolato.

Le pinoccate hanno rappresentato, sin dai tempi antichi, per la ricchezza degli ingredienti, un dono prezioso a personaggi importanti: “Guid’Antonio Conte d’Urbino, prese la Metola e cercava d’appropiarsi quella porzione di Massa Trabaria che era soggetta a Città di Castello. Nel passare per detta Città, Regarda moglie del conte e Batista moglie di Galeazzo Malatesti sua cognata, furono onorate con doni di pinoccate, targiae (confettura), anaci, candele, doppieri di cera e di sei pilascari malvasiae (otri di pelle con vino di malvagìa)[…]. Nello stess’anno, 1416, Città di Castello onorò quanto potè BraccioAvendo la città preso il Castello di Civitella, gli regalò il cavallo del marchese Guido. Sentendo che Braccio era accampato nel suo territorio lo regalò di pinoccate, cera, biade, vini, e profuse regali anche al suo figlio Oddone. (da “Memorie Civili di Città di Castello, raccolte da M. G. M. A. V di C. “Volume 1, Città di Castello Presso Francesco Donati, con Approvazione 1844. Capo VIII: Osservazioni sopra lo Stato Civile di Città di Castello nel secolo XIV e principio del secolo XV, pag 216. Capo X: Notizie di Città di Castello sotto Braccio Fortebracci, pag 239).

Marilena Badolato