Edizione: 2015 Olio d’oliva a Paciano
La notte è calata e la pioggia, che ha subito iniziato a cadere fine sul nostro viaggio di 120 chilometri a nord di Roma, si è fatta incessante quando siamo arrivati a Paciano. Usciamo dal nostro furgone e attraversiamo i pochi metri di scura campagna che ci separano dal santuario Il Campodonico, una fattoria trasformata in due affascinanti appartamenti turistici, in uno dei quali un’ampia tavola imbandita aspettava il nostro arrivo.
È bastato un attimo prima che il vino iniziasse a scorrere e che i piatti vuoti venissero riempiti di pasta fresca che, come usa in Italia, è solamente la prima di innumerevoli portate che ci hanno portato, alla fine, a una sazia resa collettiva.
Non appena sembrava che la combinazione del vino, dei carboidrati e del jet lag incanalasse la serata verso una conclusione rilassata, la porta si apre per far entrare un inglese fradicio di pioggia con una bottiglia di plastica in mano. La vista dell’inglese e della bottiglia ci ha strappato un urlo di riconoscenza, benvenuto e trepidazione. Tra i motivi che ci hanno portato a Paciano ci sono entrambi. L’inglese è George Holt e la bottiglia che ha in mano contiene il primo olio nuovo della stagione.
“Dovrebbe essere per questo che siete qui,” dice. Ma dentro quella bottiglia, l’olio ha un aspetto anonimo, addirittura poco invitante. Verde e opaco, una conseguenza temporanea dei sedimenti e delle foglie che si sono fatti strada lungo il processo di molitura; sembra acqua di stagno.
Ma poi George versa un po’ di quell’olio su un piatto su cui sono disposti dei pezzi di pane. “Guarda,” dice e naturalmente quello che nella bottiglia sembrava verde ha iniziato a risplendere di un brillante color oro che sembrava accendere la stanza come il contenuto della valigetta misteriosa in “Pulp Fiction.” Galvanizzati, intingiamo il pane in questo nettare e, meravigliati dalla forza del suo gusto, apriamo dell’altro vino e chiacchieriamo fino a notte fonda.
Sono stato condotto a Paciano dalle balene. Ovviamente, nella regione del centro Italia dell’Umbria non vi sono mammiferi marini, ma in gioventù mi ero riproposto di passare la vita a scrivere e battermi per la protezione degli animali selvatici e le balene erano in cima alla lista. Questo mi ha portato a Sidney Holt, biologo marino ed eminenza grigia di quello che possiamo chiamare il movimento “Salviamo le balene”. Negli anni ’60 è stato uno dei primi scienziati a schierarsi a favore di una ingente riduzione del commercio di balene e, a metà degli anni ’80, ha continuato a essere una delle voci più forti a favore della conservazione all’interno della Commissione internazionale per la caccia alle balene. Nel 1989, quando avevo 21 anni, ho avuto la mia opportunità nell’olimpo dei salvatori delle balene quando riuscii ad avere un lavoro a Greenpeace.
Ero stato assunto da un trentaduenne texano di nome Leslie Busby; lavorava sul problema della caccia alle balene a stretto contatto con Sidney Holt e David McTaggart, un canadese che un tempo guidò un’imbarcazione di attivisti nella zona dei test nucleari francesi nel pacifico meridionale e che al tempo era presidente di Greenpeace International. Tutti e tre vivevano in Italia e quando ci siamo incontrati alle riunioni della Commissione internazionale per la caccia alle balene, David ha invitato me e altri colleghi a raccogliere le olive nella fattoria che aveva acquistato fuori da un paese chiamato Paciano.
Ho sempre rifiutato, in parte perché avevo la sensazione che sarebbe stato più un lavoro che una vacanza e in parte perché l’olio di oliva suscitava in me poco interesse.
David è morto nel 2001 in un incidente stradale e mi sono pentito di non avere mai accettato la sua offerta. Ma sia Sidney che Leslie si erano trasferiti a Paciano, dove Sidney è stato raggiunto in pianta stabile da suo figlio Tim e ogni autunno giunge per qualche settimana anche un altro figlio, George, che si organizza con un gruppo di amici per raccogliere le olive della fattoria del padre. Nel 2013, Sidney, allora ottantasettenne mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere le sue memorie e l’idea di fare un viaggio a Paciano per discutere del libro ha subito riscosso entusiasmo e interesse tra i colleghi. È così che un piccolo gruppo di attivisti e studiosi di balene ha fatto visita a Sidney non appena si era rimesso da una lunga malattia vicino a Perugia per aiutare Tim e George nella raccolta delle olive.
Do un’occhiata a Paciano sotto la luce del mattino, mentre la nebbia si ritira nel vicino lago e nelle vallate boscose, e il mio primo pensiero è che è proprio così che gli scenografi di Hollywood avrebbero ricreato l’archetipo del paese medioevale italiano. Costruito qui all’inizio del XIV secolo (nei due secoli precedenti Paciano era su una collina più a monte), nonostante qualche modifica e ovvie modernizzazioni intervenute col tempo, la sua struttura fondamentale e il suo aspetto sono pressoché identici: tre strade parallele intersecate da stretti vicoli rinchiuse da spesse mura in pietra con otto torri e tre porte ad arco. Questo insieme, con la campagna circostante, si è guadagnato la definizione ufficiale di uno dei “Borghi più belli d’Italia”.
Il centro nevralgico della vita dentro le mura è la piccola piazza del paese, Piazza della Repubblica, sovrastata dal campanile e dal municipio di fronte al quale si trova un bar-caffetteria. L’altro bar di Paciano, subito fuori le mura, guarda verso il Lago Trasimeno, il quarto lago più grande d’Italia e luogo della famosa vittoria di Annibale sui Romani nel 217 a.C., e verso la Toscana con un ampia vista su campi di grano, mais e girasoli durante l’estate e un’infinità di olivi, un aspetto così intrinseco alla vita di Paciano che i suoi rami hanno trovato posto perfino nello stemma comunale.
Nel bar subito fuori le mura, chiamato Bar Boldrini dal nome del suo proprietario, Franco Boldrini, il cui padre è stato sindaco dal 1954 al 1980, una mattina ho passato un’ora a farmi una cultura sulle olive, sull’olio di oliva e sulla vita con il novantaquattrenne Aldo Serafini, che in passato è stato anche un esperto di olive per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura.
“Qui intorno tutta la terra è ricca di potassio,” mi spiega grazie all’interpretazione di Leslie. “È importante per le olive, perché favorisce la crescita dei frutti. Ciononostante, gli alberi qui sono piccoli, perché gli olivi preferiscono un clima più caldo; il clima mediterraneo è l’ideale. Al Sud, un solo albero è in grado di produrre 200 chili di olive”.
Venticinque anni fa David McTaggart voleva assumere Serafini come agronomo, ma Serafini dice: “Ero in pensione. Non volevo altre responsabilità. Ma mi sono preso cura dei suoi alberi prima che comprasse la tenuta, quindi ho accettato di aiutarlo un po'”.
Ed è stato al Bar Boldrini che George e Tim Holt mi hanno trovato insieme ai quei girandoloni dei miei compagni amanti delle balene per strapparmi dal tepore e dalla compagnia per provare l’esperienza dei raccoglitori di olive.
Nonostante i miei rimpianti per non aver mai accettato l’offerta di David, parte delle motivazioni della mia esitazione iniziale era corretta: Raccogliere le olive è un duro lavoro.
Quando arriviamo alla tenuta di Sidney, George e Tim mi indicano freddamente un cesto contenente vari indumenti e strumenti.
“Occhiali di protezione,” ha borbottato George. “So che ti sembrerà strano, ma chi non indossa gli occhiali ha bisogno di occhiali di protezione”. Occhiali di protezione? Ma che razza di lavoro duro e di manovalanza mi stava aspettando?
Il ragionamento, però, fila. Gli olivi hanno chiome composte da sottili rametti e dato che il miglior modo di raccogliere olive manualmente è quello di gettarsi nella mischia, è fin troppo facile incappare nell’estremità di uno di quei rami e cavarsi un occhio. Dopo essermi adeguatamente protetto, ho selezionato un ramo e mi sono gettato a capofitto, guadagnandomi la strada verso l’interno tenendo con una mano un ramo carico di olive e scorrendolo con l’altra, facendo saltare le olive e i loro steli senza alcuna resistenza nelle reti che sono state disposte sul terreno.
Dopo un po’, sono entrato nel ritmo diventando in qualche modo geloso verso il “mio” albero: L’avevo iniziato e volevo finirlo. Ho borbottato tra me e me quando uno dei miei amici si è unito a me. Inizialmente i rami, appesantiti dalle olive, lasciavano cascare il loro ben di Dio con una resistenza minimale, ma più si andava avanti più il processo è diventato un esercizio di paziente e meticolosa ricerca delle ultime sacche di resistenza in un albero pressoché denudato. In più di un’occasione, non facevo in tempo a fare un mezzo passo indietro dalla mia conquista, sorridendo di soddisfazione per un lavoro così ben fatto, che Tim mi compariva dal nulla dicendo:
“Ti sei scordato un pezzo”, rimproverandomi educatamente per poi darsi da fare con un ramo che era rimasto bello carico ma nascosto dalla mia vista tra i suoi vicini spogli.
Dopo aver staccato tutte le olive da un gruppo di alberi, prendiamo e solleviamo i bordi delle reti, procedendo in avanti e facendo rotolare le olive sul terreno fino a che non formano un lungo cumulo; quindi ci abbassiamo e iniziamo a raccogliere i ramoscelli o i detriti simili che avrebbero potuto danneggiare l’impianto di molitura e rovinare il gusto dell’olio. Solo dopo Tim mette il bottino nelle ceste e lo trasporta nei due mulini locali per lavorarlo immediatamente.
Se da un lato l’Italia è il secondo più grande produttore di olio d’oliva dopo la Spagna, la maggior parte del prodotto del Paese proviene dalle calde regioni del Sud. Inoltre i produttori di olio d’oliva del Mediterraneo sono sempre più in concorrenza con l’Australia e gli Stati uniti, che producono il loro olio per il consumo interno. Ma sebbene le regioni centrali d’Italia come l’Umbria non riescano a tenere il passo delle regioni meridionali in termini di quantità, molti in queste aree affermano di avere un chiaro vantaggio in termini di qualità.
Non avevo idea di cosa volesse dire olio di oliva fino a quando George non mi si è parato davanti quella prima sera al Campodonico. E anche allora, non avevo completamente apprezzato l’olio di oliva finché non sono tornato a Paciano alcune settimane dopo per una degustazione con Alina Pinelli. Alina è un’assaggiatrice di olio d’oliva, una professione la cui esistenza mi era finora ignota, come lo è sua madre, Lucia. Insieme, gestiscono una struttura turistica appena fuori il paese in cui gli ospiti non solo consumano cibo biologico locale ma, nella misura in cui ritengono, ne partecipano alla coltivazione e preparazione. Una sera, Alina aspetta Leslie e me in cucina.
“Prima di una degustazione, bisogna scaldare l’olio”, mi ha spiegato stringendo le sue mani intorno a due bicchieri: uno contiene un olio d’oliva commerciale standard, l’altro olio coltivato nella tenuta. Il mio palato si potrebbe definire “scarsamente istruito” e per questo ho paura di fare brutta figura. Annuso un bicchiere e poi l’altro e la distinzione tra i due oli mi è subito chiara. L’olio commerciale è piatto, quello biologico sembra un bouquet tipo…e qui ero in difficoltà con il paragone. “Carciofi,” mi suggerisce Alina. Sì, carciofi. Esatto.
E il sapore, abbinato al pane fresco, è incomparabile. Non è come l’olio di oliva del supermercato che ho sempre assaggiato. Era affilato, potente, quasi amaro. I nemici dell’olio d’oliva sono la luce, l’ossigeno, il tempo e la temperatura, fattori che ne aumentano l’acidità e ne deteriorano il gusto. Molti oli commerciali utilizzano olive conservate e trasportate su lunghe distanze e gli oli stessi percorrono lunghi viaggi e trascorrono molto tempo nei magazzini e sugli scaffali. Ma le olive di questo olio sono state pressate entro poche ore o minuti dalla raccolta e l’olio che in questo momento sta stuzzicando i miei sensi è stato imbottigliato immediatamente.
“A molti non piace l’olio d’oliva buono”, dice Alina. “È troppo forte e amaro per loro. Non ci sono abituati”. Non pensavo che a qualcuno potesse non piacere o addirittura che potessi usare un altro tipo di olio da quel momento in poi.
In un certo senso, ci sono due Paciano: il vecchio paese racchiuso da mura in pietra e la vita che lo circonda. Ciascuno di essi ha il suo fascino: Soggiornare a Il Campodonico, uscire la mattina presto sull’erba intrisa di rugiada e bere davanti al panorama dei campi circostanti, del Lago Trasimeno sullo sfondo e del vicino paese di Panicale in cima alla collina suscita emozioni difficili da descrivere. Ma anche durante il soggiorno presso l’appartamento di Tim nel paese vecchio era bellissimo passeggiare nelle strette vie debolmente illuminate e respirare la storia che trasudava da quelle mura in pietra.
Oggi, nel centro vivono solo 68 persone, ma non è sempre stato così. “Mi ricordo che quando ero giovane gli appartamenti erano pieni e giocavamo in strada”, mi ha detto lo storico locale Oriano Spadoni davanti a una tazza di caffe a Il Baretto, il bar nella piazza del paese. “Non abbiamo mai lasciato la città. C’era un panificio. Il paese era pieno di negozi. Mi ricordo una cosa: Se camminavi per la strada all’una, erano tutti a casa per pranzo. C’era odore di mangiare e il rumore della gente che parlava, non c’era la TV. Mi piacerebbe che tornassero un po’ di persone a vivere dentro al paese.”
Ma il paese murato è qui da 700 anni e ha visto passare tante generazioni che ci vorrebbe molto a contarle una a una. E mentre passeggio lungo le strade in una fredda sera di metà dicembre, la città vecchia brulica ancora di vita.
Questa sera Piazza della Repubblica è piena di banchetti illuminati che offrono olio e pane su grandi fette di pane tostato, irrorate di olio e servite come enormi bruschette. L’aroma del pane, il calore delle stufe a legna e il suono delle chiacchiere attraversa l’aria e un fiume di persone si rifugia nel bar per riscaldarsi con un caffè e altre bevande mentre i paesani festeggiano l’annuale festa dell’olio d’oliva, l’ultima festa dell’anno per Paciano e un’occasione per segnare la fine del raccolto e accogliere l’olio nuovo.
Mi sono seduto a un tavolo fuori da Il Baretto mentre lottavo con una bruschetta che avrebbe potuto sfamare un cavallo, ho cercato un po’ di calore a un altro tavolo dentro al bar e ho chiacchierato con un po’ di paesani.
“Le persone che vivono qui, sono qui per darsi una mano,” dice Luigi Buitoni, rampollo della famiglia proprietaria dell’azienda alimentare che porta il suo nome (e di un castello lungo le mura del paese). “Se hai bisogno di aiuto, non ti do dei soldi, ti do un pollo. Cucino per te; tu mi tagli l’erba”.
Paciano è “una comunità, come una famiglia,” aggiunge Franco Boldrini del bar del paese. La recente crisi economica globale e le sfide che la nostra epoca pone a un paese così piccolo hanno portato al declino della popolazione di Paciano dopo il suo picco registrato negli anni ’60, ammette, “ma spero che cose come Palazzo Baldeschi possano riportare qui un po’ di vita”.
Situato appena fuori la piazza e costruito nel XVII secolo come residenza estiva per i parenti di un importante cardinale, il Palazzo ha giaciuto nell’incuria per molti anni ma in quel weekend si mormorava di una sua imminente ristrutturazione. Ora ospita l’ufficio informazioni turistiche, sale convegni, una libreria pubblica, un centro di educazione ambientale e di sensibilizzazione dedicato a David e il TrasiMemo, un museo interattivo che celebra l’artigianato locale, il tipo di investimento che sarebbe semplicemente accolto con favore in una cittadina della contea di Prince George’s ma che in una comunità in cui nelle mura perimetrali vivono solo 68 anime ha l’effetto di una botta di adrenalina.
A questo ottimismo si aggiungeva anche il fatto che quel weekend in una delle strade laterali del paese aveva aperto un nuovo negozio, un raro esempio di attività che apre all’interno delle mura. Fondato da una famiglia locale che era ritornata dopo aver vissuto per anni a Firenze, vende prodotti locali biologici, come il vino e, ovviamente, l’olio di oliva, ma anche ceramiche e piatti locali. “Il negozio è solo il primo passo”, dice Claudio Bittoni, uno dei proprietari. “Spero che sia un buon inizio”. Il secondo passo dell’azienda di famiglia saranno le visite del paese, in italiano e in inglese, offerte da Claudio. Ma il vero sogno della famiglia è quello di convertire un vecchio convento, che al tempo della mia visita era principalmente abitato da piccioni, in un teatro e ristorante. “È difficile da vedere ora”, dice Claudio mentre ci mostrava l’edificio in rovina, “ma nella mia testa, vedo già i progetti.”
Quella sera praticamente l’intero paese si è alternato a cenare lungo le lunghe tavole della taverna organizzata in una cantina aperta solo durante la festa. Mi sono seduto a fianco di Suzie Behrens e il suo partner, Paddy Scott, che gestisce una piccola scuola di inglese nel paese La piccola Paciano sembra un luogo insolito per trovare due emigrati che insegnano inglese e Suzie ha ammesso che quando sono arrivati qui dopo aver girato per l’Italia, “i nostri amici a Londra ci hanno presi per pazzi. Non ci sono discoteche. Non ci sono cinema. Ma ci è piaciuta. Quando siamo arrivati, le anziane ci abbracciavano perché erano felici che nel paese si trasferissero dei giovani”.
Lasciamo la taverna e mentre siamo fuori, in procinto di andare in piazza a bere un bicchiere a Il Baretto, il suono dei canti degli studenti che cantano le canzoni di Natale nella chiesa di Santa Maria Assunta risuona tra le mura e attraversa il cielo notturno.
La mattina seguente, Leslie, Tim ed io partiamo per andare alla tenuta di David, salendo lungo una collina coltivata ad olivi ci imbattiamo sulla sua tomba, contraddistinta da un basamento in marmo con un globo cinto da una balena. La radice di Paciano è “pax“, o pace; dopo una vita irrequieta spesa a viaggiare il mondo, è proprio la pace che David ha trovato qui e quello che avrà per sempre, su un fianco riparato della collina, a guardia dei suoi amati olivi.