Unica Umbria

Storia & Storie

Le città della ceramica

Diario di viaggio
Autore: Merli, Sonia

Tradizionalmente collocata nel novero delle cosiddette “arti minori”, la ceramica è tra le espressioni artigianali e artistiche divenute più precocemente oggetto di un’attenzione storico-critica, soprattutto in virtù dell’interesse mostrato da estimatori e cultori del genere che, a partire dal Sette-Ottocento, si sono occupati di tali manufatti di uso comune o di gran lusso in veste di connoisseurs, di antiquari e di appassionati collezionisti.

Lo spaccio del “Siropus acetosus”, in “Theatrum Sanitatis”, sec. XIV, Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182, tav. 183Biblioteca Casanatense)

A questo approccio, che potremmo definire ‘elitario’, dalla fine del XIX secolo si è affiancata la crescente esigenza di ricercare localmente nei documenti le radici storiche di mestieri d’arte di lunga tradizione o appena riscoperti e dunque necessitanti di una qualche ‘nobilitazione’ per il tramite delle fonti scritte.

Ed è proprio sulla scia di quelle erudite – ma in genere poco sistematiche – indagini che negli ultimi decenni sono stati condotti studi a tutto tondo dei più importanti centri italiani specializzatisi nella produzione della ceramica artistica nel basso Medioevo e in età rinascimentale. Con la conseguenza che, all’attività di scavo archeologico e allo studio critico di attribuzione e classificazione dei singoli oggetti, si sono aggiunte le risultanze, altrettanto importanti, della ricerca documentaria applicata a diverse tipologie documentarie.

Posto che i reperti e le testimonianze materiali ci ‘parlano’ essenzialmente di tecniche e di stili, sono i documenti che – dando conto dell’ubicazione di fornaci e botteghe o descrivendo l’organizzazione del lavoro nei suoi aspetti produttivi e commerciali – permettono di chiarire non soltanto l’insieme dei rapporti economici e sociali alla base del ciclo della lavorazione e della commercializzazione dei manufatti ceramici, ma anche di seguire la diffusione di influenze culturali, di linguaggi decorativi e delle connesse tecnologie in ben precise fasi storiche. E ciò anche in ragione del fatto che nessun materiale al pari della ceramica è stato così ‘amico’ dell’uomo: grazie infatti all’abbondanza della materia prima utilizzata, alla sua facilità di lavorazione e alla capacità di conservare la forma una volta che l’impasto si è seccato, la ceramica è sempre più divenuta utensile d’uso e contenitore per cibi, bevande e medicamenti, sposando di volta in volta le molteplici forme dell’oggetto pratico e della quotidianità.

Emblema dell’Arte dei vasai di Orvieto, part. tratto dalla Tavola delle Corporazioni del 1602, Orvieto, Archivio dell’Opera del Duomo, Disegni e stampe, a. 1602 (per gentile concessione dell’Opera del Duomo di Orvieto)

Per lungo tempo, naturale punto di partenza per lo studio della produzione ceramica sono stati gli Statuti e le Matricole dell’Arte dei vasai, che, sebbene quasi sempre carenti di informazioni specifiche sulle tecniche e sulle fasi di lavorazione, forniscono dettagliate informazioni su quello che era l’assetto organizzativo assunto nel basso Medioevo dalle corporazioni cittadine dei vasai.

Attraverso il fitto susseguirsi delle norme statutarie è quindi possibile conoscere non soltanto le magistrature interne all’Arte, la composizione e la durata degli organi collegiali, le modalità di elezione degli ufficiali, i requisiti necessari per l’immatricolazione degli artifices, le forme di solidarietà e assistenza da prestare ai propri iscritti e le festività da osservare, ma anche i provvedimenti atti a tutelare il lavoro dei figuli o vasarii o vasellarii e il loro prezioso savoir faire.

Nel caso di Perugia – di cui si è conservata la redazione del 1406 dello Statuto dell’Arte, sebbene la corporazione dei vasai risulti attestata nelle fonti almeno dal 1286 – si stabiliva, ad esempio, che gli artigiani erano tenuti a osservare le festività indicate nello Statuto del Comune, sotto pena di 10 lire di denari, prevedendo però nel contempo che agli stessi artifices fosse consentito di vendere i propri prodotti presso le chiese ove fosse possibile lucrare un’indulgenza. Si prevedevano inoltre discriminazioni di natura fiscale fra artigiani iscritti e non iscritti alla Matricola che esercitavano la professione in città o nel contado e una soprattassa di 10 soldi per l’impiego di mano d’opera forestiera per un periodo superiore a tre giorni.

Anche a Orvieto furono emanate disposizioni volte, per un verso, a garantire gli appartenenti alla corporazione imponendo dazi sulla vendita dei prodotti ceramici importati, ma anche funzionali alla tutela del buon nome dei manufatti, proibendo in particolare l’impiego di argilla di basso livello qualitativo e obbligando l’estrazione della materia prima da cave abitualmente utilizzate in quanto di comprovata qualità.

Sempre dallo Statuto erano regolamentati i contratti di apprendistato degli artigiani, con i quali si mirava a garantire la trasmissione del “saper fare” all’interno delle botteghe. In linea di massima, i giovani lavoranti dovevano servire i maestri vasai per almeno otto anni senza percepire in cambio alcun salario; dopodiché, potevano essere regolarmente inseriti nella produzione o rimanendo nella bottega del maestro o iniziando a operare in modo autonomo.

Nel 1494, ad esempio, un cittadino derutese chiedeva di impiegare per otto anni il proprio figlio tredicenne nella bottega del maestro Bartolomeo del Becha, il quale a sua volta, con il consenso del Camerario dell’Arte e nel rispetto dello Statuto vigente, si impegnava a insegnare il mestiere al ragazzo, a mantenerlo a proprie spese garantendogli vitto e alloggio e a lasciarlo libero una volta trascorso il tempo concordato.

E ancora nel 1499 Giorgio Andreoli – il celebre maestro di origini lombarde trasferitosi dal 1495 a Gubbio – accoglieva nella sua bottega un giovane apprendista di origine milanese, anche in quel caso impegnandosi a formarlo e a provvedere al suo mantenimento. In entrambe le circostanze, fu un instrumentum rogato da un notaio a fissare in maniera chiara e inequivocabile l’accordo tra i contraenti.

Matricola dei Vasai di Perugia del 1442, porta San Pietro, BSR, ms 1 (per gentile concessione della Biblioteca del Senato della Repubblica Giovanni Spadolini)

A corredo degli Statuti, vi erano immancabilmente le Matricole dell’Ars vasariorum, costituite dagli elenchi nominativi, regolarmente aggiornati su base territoriale, degli iscritti che esercitavano la professione. Citando ancora il caso di Perugia, dall’elenco dei vasai attivi in città fino al 1605 e registrati nella Matricola secondo la porta di residenza, è stato possibile non soltanto stabilire quanti furono gli artifices che dal 1444 operarono nelle varie zone della città, ma anche delineare quelle che furono le fasi di sviluppo e di crisi delle attività legate alla lavorazione della ceramica.

Se poi si sposta il punto di osservazione sul versante politico-istituzionale, ecco che i registri delle Riformanze mostrano l’adozione da parte dei Comuni di forme spinte di protezionismo e di controllo pubblico sia sulla produzione dei manufatti ceramici che sulla loro commercializzazione. Nel 1456, ad esempio, il gonfaloniere e i consoli di Gubbio deliberarono di accogliere le richieste dei vasai – evidentemente preoccupati degli effetti dannosi causati all’economia locale dalla importazione di manufatti ceramici fabbricati altrove –, intervenendo con provvedimenti di chiusura dei mercati alla produzione non locale, fatta eccezione per il vasellame da fuoco realizzato dai vasai della vicina Gualdo Tadino, con ciò intendendo quella specifica tipologia di oggetti ceramici di uso comune in cui l’elemento funzionale prevaleva su quello artistico. Analoghe misure restrittive si ritrovano a Orvieto, con l’esclusione, questa volta, dei prodotti dei vasai derutesi, per i quali nel 1472 fu addirittura prevista una apposita riduzione fiscale rispetto alla tassazione di norma applicata.

Degno di nota è inoltre l’intervento del tutto eccezionale disposto nel 1458 dalle magistrature del Comune di Perugia a beneficio del castello di Deruta, posto nel contado di porta San Pietro a una ventina di chilometri dalla Dominante. In questo caso, infatti, fu messa in atto un’operazione di ripopolamento e di sostegno economico alle attività produttive del piccolo insediamento – ormai decimato dalle ricorrenti epidemie e pestilenze – prevedendo l’esenzione fiscale completa per quaranta anni a favore di tutti i forestieri che vi si volessero stabilire. Accadde così che la ripresa della produzione ceramica, incentivata dalla vicina Perugia e rafforzata dagli apporti di maestranze forestiere, determinò un forte rinnovamento sociale e urbanistico del castrum: interi quartieri furono adeguati alle sopraggiunte esigenze abitativo-lavorative e nuovi laboratori e fornaci sorsero soprattutto nella zona extra moenia del Borgo, che divenne ben presto il nuovo nucleo delle attività produttive della comunità.

Intestazione del catasto della famiglia Masci decorato con disegno di brocca, ASPg, ASCPg, Catasti, II, 31, c. 174r (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo)

In altre parole il castrum di Deruta, insediamento rurale di modeste dimensioni, ma provvisto di cave d’argilla di buona qualità e posto su un asse viario favorevole, dal Quattrocento aumentò gradualmente la propria produzione fino a divenire il maggior centro ceramico dell’Umbria. Per averne la prova, basta sfogliare i catasti quattro-cinquecenteschi conservati presso l’Archivio di Stato di Perugia, fonte preziosa per individuare non soltanto la consistenza patrimoniale dei singoli artigiani derutesi e la clamorosa ascesa sociale di alcuni fra questi, ma anche l’ubicazione dei luoghi di esercizio della loro attività e della commercializzazione dei prodotti, essendo registrati tra i beni posseduti dai dichiaranti anche laboratori, fornaci, grotte (necessarie per la conservazione dell’argilla fresca, in modo da mantenerla lavorabile al tornio più a lungo) e botteghe.

In particolare, l’analisi combinata delle informazioni di tipo socio-economico tratte dalle assegne catastali ha consentito di individuare e quantificare nel volgere di meno di un secolo e mezzo le strutture legate alla produzione di ceramica e le loro diverse tipologie: nel 1361 risultavano infatti accatastati nella zona del Borgo 5 laboratori e 3 fornaci; nel 1489, invece, nella stessa zona il numero delle fornaci era salito a 14, con annesse 8 grotte, mentre i laboratori e le relative botteghe erano passati a 16.

Intestazione del catasto della Comunità di Deruta con iniziale filigranata contenente un vaso biansato, ASPg, ASCPg, Catasti, II, 43, c. 5r (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo)

Il rinnovato slancio nella produzione ceramica produsse vantaggi a tal punto significativi per l’intera comunità derutese che ben presto si giunse a considerare sostanzialmente coincidenti gli interessi dei vasai con quelli della restante popolazione: un’unità di intenti che trovò la sua massima espressione nella scelta di far rappresentare all’interno del capolettera dorato e filigranato dell’intestazione del catasto del 1489 un elegante vaso biansato, assurto a emblema della comunitas castri Diruti.

Grazie infine a sistematiche campagne di spoglio della documentazione notarile, sono finalmente emerse interessanti informazioni relative a società e contratti temporanei di compagnia tra vasai.

Un esempio per tutti, lo studiatissimo caso di mastro Giorgio Andreoli, che nel 1501 costituiva a Gubbio con Giacomo di Pauluccio una società della durata di dieci anni finalizzata alla produzione e alla vendita di soli prodotti a ceramica lustrata. In particolare, nel lungo atto si procedeva a distinguere la parte di lavorazione riguardante la realizzazione dei pezzi e la relativa decorazione, condotta in modo autonomo e a proprie spese dai singoli soci, da quella che doveva essere invece eseguita a spese comuni, specificamente riferita alla applicazione del lustro e alla terza cottura. Una riprova questa della particolare difficoltà dell’operazione e dei maggiori rischi insiti nell’uso della misteriosa tecnica decorativa del “terzo fuoco”.

Non a caso Cipriano Piccolpasso nel suo celebre trattato Li tre libri dell’arte del vasajo, scritto poco oltre la metà del Cinquecento, richiamava con evocative parole il procedimento attraverso il quale si potevano ottenere i “lavori di majolica”:

Quattro uomini che alimentano una fornace: quello a destra usa una “forcina”, in Cipriano Piccolpasso, “Li tre libri dell’arte del vasaio”, ca. 1557, libro II, c. 35r, Londra, Victoria and Albert Museum, MSL/1861/7446 (© Victoria and Albert Museum)

perché gli è arte fallace, che spesse volte di 100 pezzi di lavori, a fatica ve ne sono 6 buoni. Vero è che l’arte in sé è bella ed ingegnosa, e, quando i lavori son buoni, pajono di oro.

Dopodiché i due contraenti andarono a formalizzare i termini dell’accordo per disciplinare la commercializzazione dei manufatti e la ripartizione degli utili. Sappiamo così che gli oggetti più grandi (tazzoni, con piede o senza, bacili e bronçi, piatti grandi, vasi da confetti, rinfrescatoi, scodelle coperte dette d’ampagliare e coppe da frutti) erano stimati 2 bolognini al pezzo; quelli medi (tazze comuni, scodelle con il bordo largo, piattelletti piani e tondi) 1 bolognino; quelli piccoli (boccaletti, tazzette con il manico, scodellini) 1 soldo. Dai riscontri effettuati con forniture di stoviglie acquistate negli stessi anni risulta che i prezzi dei pezzi lustrati erano fino dieci volte maggiori rispetto a quelli dei prodotti ceramici di uso comune.

A questo punto risulta dunque chiaro che, dal punto di vista tecnico, le due componenti essenziali della ceramica sono da sempre il “corpo”, ossia il materiale di cui essa è fatta (argille, caolino, feldspati) e la cottura, ovvero il procedimento più o meno complesso attraverso cui il materiale precedentemente modellato e coperto con rivestimenti vetrosi viene definitivamente consolidato.

Ma non è tutto, perché ai fini dell’apprezzamento estetico della ceramica fine ricoperta di smalto risulta di fondamentale importanza un terzo elemento: la decorazione. Se i motivi che originariamente spinsero figuli e vasai ad arricchire di disegni e colori i manufatti realizzati sono da ricercare, con tutta probabilità, nello scopo di aumentare le vendite offrendo all’occhio del compratore un prodotto meglio rifinito e più appariscente, è altrettanto evidente che i motivi dell’ornato via via utilizzati costituiscono il riflesso di gusti e tendenze propri dell’ambiente di produzione e della committenza di riferimento.

Ecco allora che lo studio storico-artistico delle ceramiche di età basso medievale e rinascimentale, basandosi sull’analisi combinata di materiali, tecniche di realizzazione ed elementi decorativi, ha raccolto sotto la denominazione di “maiolica arcaica” o “protomaiolica” gli oggetti ceramici rivestiti di una coperta vetrificata opaca a base stannifera (smalto) realizzati nell’Italia centro-settentrionale dalla prima metà del Duecento fino alla fine del Trecento. Ben note e particolarmente apprezzate dai collezionisti sono le ceramiche prodotte in questo periodo nella città di Orvieto, la cui produzione si caratterizzava per le tipiche decorazioni in verde ramina e bruno manganese, colori che avevano l’apprezzabile caratteristica di non essere solubili una volta sottoposti alle alte temperature delle fornaci. E proprio la bicromia ottenuta dall’uso di ramina e manganese faceva risaltare vivacemente sul fondo chiaro dello smalto stannifero motivi vegetali, animali o astratti, soggetti fantastici e mostruosi o ancora figure di stilizzate “regine”, donne coronate antesignane delle più morbide e aggrazziate “belle” rinascimentali.

Esempi di maiolica arcaica di produzione orvietana, XIV secolo, Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto (per gentile concessione dell’Opera del Duomo di Orvieto)

 

Dopodiché, la ceramica italiana ha beneficiato di importanti progressi grazie alla ulteriore messa a punto della tecnica dello smalto stannifero, ottenuto mescolando insieme la fritta (fatta di sabbie silicee e alcali mescolati e cotti) e il calcino (un composto di piombo e stagno insieme ossidati con funzione impermeabilizzante). Si formava così un nuovo tipo di smalto che, una volta passato in seconda cottura a un fuoco di quasi mille gradi, faceva guadagnare al manufatto su cui era stato applicato lucentezza e bianchezza. L’adozione dagli inizi del Quattrocento di questo involucro candido, levigato, lucente e nel quale l’ornato dipinto si incorporava durante la cottura, ha segnato la nascita della maiolica nel significato oggi inteso, fornendo il fondo luminoso che i pittori, ornatisti e decoratori di ceramiche italiane cercavano insistentemente da tempo.

A una prima fase, detta dello Stile Severo, hanno fatto seguito quelle dello Stile Bello e dello Stile Fiorito, in cui la ceramica è divenuta il supporto per la realizzazione di vere e proprie opere d’arte in grado di accogliere sulle loro superfici smaltate ritratti di nobildonne e gentiluomini, scene mitologiche o religiose, scritte e motti, dediche amorose ed elementi araldici. Tutti motivi e soggetti richiesti da una committenza colta e raffinata e che man mano trovarono ragione e ispirazione anche dal confronto con le opere dei grandi maestri dell’Umanesimo e del Rinascimento, che si trattasse di oggetti d’uso, di preziose stoviglie o di sontuosi pavimenti.

A – Nicola Francioli detto “Co”, Mattonelle da pavimento a forma di stella e di croce provenienti dalla chiesa di San Francesco di Deruta, maiolica, 1524, Deruta; B – Piatto da pompa con ritratto femminile e cartiglio LA GIULIA BELLA, maiolica, Deruta, prima metà del secolo XVI, Deruta. Entrambi i pezzi sono esposti nel Museo Regionale della Ceramica di Deruta (© Comune di Deruta, foto: Daniele Paparelli)

 

Tra i manufatti più frequentemente accolti nella casa signorile, oltre ai serviti da tavola (credenze) destinati ad abbellire ambienti di rappresentanza, spiccavano per bellezza le fiasche da parata, i vasi e le coppe amatorie. Quest’ultimo tipo di dono, se offerto all’innamorata, si chiamava gamelio; se offerto alla sposa in occasione delle nozze, nuziale; se destinato alla madre a cui era appena nato un figlio impagliata, indicando con questo termine un servito di stoviglie con scene allusive alla maternità, appositamente creato per la puerpera più come oggetto beneaugurante che non per la sua funzionalità. Prendeva infine il nome di ballata quel particolare tipo di piatto avente forma concava e dai bordi molto ampi con su dipinti strumenti, brani musicali, versi su quaderni aperti, nel quale si presentavano durante i balli dolci e confetti alle fanciulle.

Piatto da pompa con ritratto di “bella donna”, maiolica a lustro, produzione Deruta, 1500-1515 ca., Perugia, collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia (per gentile concessione)

Nei piatti da pompa, invece, una tipologia decorativa particolarmente diffusa era quella delle “belle”: al centro del cavetto venivano rappresentati ritratti di donne il cui nome, scritto su nastri a svolazzo, era spesso accompagnato dall’aggettivo “bella” e, talvolta, dal nome dell’innamorato, mentre sulla tesa a scomparti si alternavano decorazioni a ‘dente di lupo’, embricazioni, girali fioriti, foglie lanceolate e infiorescenze.

Certo è che il coronamento dell’evoluzione che nel basso Medioevo aveva interessato la produzione ceramica italiana poté essere raggiunto soltanto sul finire del Quattrocento, quando alcuni intraprendenti vasai giunsero finalmente a padroneggiare perfettamente la tecnica del lustro, procedimento introdotto nel bacino del Mediterraneo dai ceramisti persiani già nell’VIII secolo e in seguito ripreso con successo nelle maioliche ispano-moresche allo scopo di aggirare il divieto religioso di utilizzare sulla tavola stoviglie e vasellame d’oro o d’argento.

L’effetto si otteneva grazie all’impiego di uno speciale impasto di sali di argento e rame mescolati a terra d’ocra e diluiti in aceto. Una volta che la patina dorata o ramata era stata applicata sullo smalto precedentemente cotto a 1000 gradi, seguiva un’ulteriore cottura in un forno riducente (cioè povero di ossigeno) e a temperatura piuttosto bassa (circa 600 gradi): in buona sostanza, il “terzo fuoco” ammorbidiva lo smalto senza fonderlo, consentendo così al lustro di fissarsi. La presenza di fumo (ottenuto soprattutto dalla combustione di ginestre), per una sorta di trasmutazione alchemica restituiva allo stato metallico gli ossidi coloranti ed ecco che, una volta usciti dal forno naturalmente raffreddatosi, gli oggetti, dopo un’energica pulitura, giungevano a sprigionare finalmente mirabili riflessi dorati e cangianti.

Piatto fondo con trigramma di san Bernardino, maiolica a lustro, Manises (Valencia), metà del secolo XV, Los Angeles, Getty Museum (per gentile concessione)

Degno di nota è infine il fatto che i vasai italiani, una volta impossessatisi del segreto che stava alla base del lustro (loza dorada), denominarono maioliche (ovvero de Maiorica) soltanto i prodotti impreziositi da riflessi iridescenti, alludendo così esplicitamente alla provenienza geografica dei bellissimi manufatti lustrati di tipo ispano-moresco, già da tempo importati in tutta Italia da Valencia per il tramite dell’isola di Maiorca e per secoli considerati come inarrivabili modelli di riferimento.

Fra questi, è indubitabile che mastro Giorgio Andreoli fu in grado di raggiungere vette altissime sia dal punto di vista tecnico che artistico, come dimostrano le splendide opere a terzo fuoco fuoriuscite dalle sue celeberrime botteghe di Gubbio e Urbino in collaborazione con pittori di istoriati durantini e urbinati del calibro di Francesco Xanto Avelli e Francesco Urbini.

Francesco Xanto Avelli da Rovigo (attr.), lustro di Mastro Giorgio, Piatto con Pico e Canente, maiolica a lustro, 1528, Gubbio, Museo Civico Palazzo dei Consoli (per gentile concessione del Comune di Gubbio)

Veri e propri capolavori che, a seconda dei casi, fanno bella mostra di sé nei più importanti musei del mondo o sono più che mai contesi nel mercaro antiquario da agguerriti collezionisti.

Né fu un caso se nel 1498 il duca Guidobaldo I, l’attesissimo erede maschio nato nel 1472 dall’unione di Battista Sforza e Federico di Montefeltro, concedette per vent’anni ai fratelli Giorgio, Giovanni e Salimbene Andreoli la cittadinanza eugubina e l’esenzione dalla gabella, garantendo così alla raffinata corte di Urbino, da lui tenuta insieme alla moglie Elisabetta Gonzaga, una abbondante produzione di oggetti di lusso e di stoviglie di altissimo pregio.

Cittadinanza che, allo scadere dei vent’anni, fu peraltro rinnovata senza più limiti di tempo da Leone X, in considerazione:

della sua eccellenza nell’arte della maiolica sì che alcuno non gli è pari… [e]…per l’onore che ne ridonda alla città, al Signore ed al comune di Gubbio presso tutte le Nazioni alle quali vengono portati i vasi della sua fabbrica e per il grande lucro ed utilità di dogana.

Sonia Merli

Sintesi aggiornata da S. Merli, Le città della ceramica, in MedioEvo, VIII (2000), pp. 89-113.

Piatto da pompa con aquila reggiscudo raffigurante l’insegna araldica della famiglia perugina dei Ranieri, maiolica a lustro, prima metà del secolo XVI, Museo Regionale della Ceramica di Deruta (© Fototeca Servizio Musei, archivi e biblioteche della Regione Umbria; foto di Sante Castignani)

Lustro di Mastro Giorgio, Piatto con insegna araldica della famiglia savonese dei Vigeri, 1524, Los Angeles, Getty Museum (per gentile concessione)

Gubbio (o Urbino), bottega di Mastro Giorgio, Coppa con il Ratto di Proserpina (fronte e retro), 1537, Gubbio, Museo della Maiolica a Lustro “Torre di Porta Romana” (per gentile concessione)

 

Per saperne di più:
U. Nicolini, Il paese dell’arte civile. Scritti sulla storia di Deruta e della ceramica derutese, Perugia 1997.
Mastro Giorgio da Gubbio: una carriera sfolgorante, a cura di G.C. Boiani, Catalogo della mostra (Gubbio, Palazzo dei Consoli, 19 settembre – 7 novembre 1998), Firenze 1998.
1909. Tra collezionismo e tutela. Connoisseur, antiquari e la ceramica medievale orvietana, Catalogo della mostra (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria e Palazzo Baldeschi al Corso, 8 novembre 2009 – 10 gennaio 2010), a cura di L. Riccetti, Firenze 2010.
Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto. Ceramiche, a cura di M.S. Sconci, Firenze 2011.
Maiolica. Lustri oro e rubino della ceramica dal Rinascimento ad oggi, Catalogo della mostra (Assisi, Palazzo Bonacquisti, 27 aprile – 13 ottobre 2019), a cura di G. Busti, C. Cocchi, Perugia 2019.