Unica Umbria

Storia & Storie

Norcino, un chirurgo sacerdote

Diario di viaggio
Autore: Giacchè, Luciano

Succede a molte parole di uso comune di essere impiegate senza conoscere le motivazioni dell’attribuzione del significato che hanno acquisito. Talvolta il termine appare talmente esplicito da non aver bisogno di ulteriori spiegazioni. Questo è il caso della “norcineria” con cui si designa l’attività di lavorazione delle carni suine che deriva dalla città di Norcia, pur trattandosi di una pratica in uso in tutto il paese, capillarmente diffusa nel centro-nord e denominata nei vari luoghi con voci dialettali.

Fra i tanti termini in uso per indicare “colui che uccide il maiale e ne lavora le carni” è stato assunto in lingua italiana il toponimico “norcino” e, senza interrogarsi sui motivi storicamente documentati di questa scelta, si è preferito alimentare la convinzione che questa attività fosse un’esclusiva prerogativa degli abitanti di Norcia.

Sull’origine di questa specializzazione si è addirittura costruito un vero e proprio mito di fondazione che riconduce la nascita della professione del “norcino” nientemeno che alla dinastia dei Flavi, che avrebbero destinato le loro vaste proprietà nel territorio di Norcia, luogo natale di Vespasia Polla, madre di Vespasiano, all’allevamento dei suini, affidandone la cura agli Ebrei deportati da Tito dopo la conquista di Gerusalemme nel 70 d.C., «messi a guardia di mandrie di maiali, adibendoli alla confezione delle loro carni, sicuri che non le avrebbero consumate, perché vietato dalla loro religione».

Questa ipotesi, avallata anche da alcuni studiosi, non solo non è confortata da alcun riscontro documentale (neppure nella biografia di Vespasiano scritta da Svetonio Tranquillo Gaio, che pure aveva il gusto della minuta notizia e dell’aneddoto), ma non considera che il precetto biblico vieta agli Ebrei non solo di mangiare la carne di porco, ma persino di toccarne il cadavere, rendendoli pertanto indisponibili alla lavorazione delle carni.

Altrettanto leggendaria è l’ipotesi che gli abitanti di Norcia sarebbero stati istruiti nell’apprendimento dell’arte della lavorazione del maiale dai monaci benedettini. In verità, le scritture dei monaci avevano tutt’altro oggetto e non esiste alcun testo riferibile ai benedettini dedicato a questo argomento.

Questa pretesa specializzazione non trova conforto neppure negli “Statuti di Norcia”, pubblicati a stampa nel 1526, in cui viene usato il termine generico di “macellari “o “beccari”, con riferimento all’«arte delli macellari», per la macellazione, la lavorazione e il commercio delle carni, senza alcuna distinzione fra bovini, suini e ovini.

Piazza San Benedetto a Norcia, prima del terremoto del 2016

Una prima pista utile per svelare l’etimologia si incontra nella relazione della visita apostolica nel territorio di Norcia effettuata da monsignor Innocenzo Malvasia nell’ottobre del 1587, in cui vengono elencate le varie attività a cui si dedicavano gli abitanti dei castelli e delle ville di questa zona montana, costretti dalla inospitale natura del luogo a esercitare mestieri stagionali in altre località, soprattutto in inverno.

Questa migrazione riguardava in primo luogo i pastori che praticavano la transumanza verso l’Agro romano, ma trattandosi di una destinazione connaturata alla zona non viene presa in considerazione dal Malvasia. Ricevono invece interesse attività singolari come quelle, fra le tante citate, degli incettatori di zafferano, dei trasportatori di allume, dei chiavari e degli uccellatori. In particolare, vengono segnalati i «macellari di carne porcina» in Roma provenienti da Montebufo di Preci, mentre gli abitanti di Abeto e Todiano risultano insediati come facchini della Dogana a Firenze dove avevano costituito la Confraternita di S. Giovanni Decollato dei Portatori di Norcia.

L’appellativo di “norcino” è stato infatti attribuito dai fiorentini agli abitanti delle ville e dei castelli nell’area di Preci, a quel tempo sotto Norcia, che erano incaricati di portare i maiali al macello comunale. Il mestiere di facchino, apparentemente umile, era di grande responsabilità e ben compensato perché il portatore doveva certificare che l’animale fosse perfettamente sano prima di provvedere alla sua macellazione e per questo compito venivano appunto scelti i “forestieri” che garantivano maggiore imparzialità.

Il portatore dei maiali, stampa di Giuseppe Maria Mitelli, 1631

A Bologna la Compagnia dei Beccai si avvaleva di facchini lombardi, mentre a Firenze operavano i “Norcini” che, già noti come “cerusici” e “chirurghi”, sono entrati nell’edizione del 1852 del Vocabolario Universale della Lingua Italiana con la definizione che conosciamo: «Norcini. Dicesi pure di coloro che in Firenze ammazzano i porci e cosi detti, perché per lo più sono del paese di Norcia».

Raffigurazioni del “portatore di maiali” che trasporta a spalla la carcassa di un maiale sono presenti fin nella metà del Seicento nelle incisioni di Annibale Carracci e di Giuseppe Maria Mitelli, autori delle “Arti per via a Bologna”, ma senza alcun riferimento al “norcino”, mentre rivelatrice è la “Veduta di Mercato. N. 8” di Carlo Lasinio, realizzata fra il 1790 e il 1795 nell’ambito di una serie di incisioni all’acquaforte colorate a mano che illustrano «I gridi di venditori ambulanti» a Firenze.

L’illustrazione, che raffigura in primo piano un portatore di maiali e sullo sfondo del mattatoio pubblico di Firenze un macellaio che taglia una carcassa, è commentata dal distico «Venghiam da Norcia ognun di voi ci chiami/A ammazzar porci e imbusecchiar salami» ed è significativo che dei quattordici mestieri rappresentati solo per il Norcino e per la venditrice di pane, «Son Panaia di Campi…», viene espressamente indicato il luogo di origine dell’ambulante.

In effetti, si trattava di un’attività stagionale, esercitata quindi come secondo mestiere praticato in forma ambulante o presso il pubblico macello. Il ricorso a uno “specialista” era giustificato dalla complessità del processo di lavorazione che richiedeva innanzitutto un’approfondita conoscenza dell’anatomia dell’animale, oltre a una comprovata capacità e una consumata esperienza sia nella macellazione, sia nella trasformazione delle carni in una variegata gamma di prodotti alimentari capaci di conservarsi nel tempo.

La macellazione del maiale nella formella di Dicembre della Fontana Maggiore di Perugia, foto di Giovanni Dall’Orto

L’uccisione del porco, la spezzatura e la preparazione di tutte le sue parti, senza buttar via nulla, neppure le ossa usate per farne sapone, costituivano le fasi di un processo di lavorazione con elementi di ritualità nella sequenza delle operazioni e nei gesti che facevano del “norcino” un singolare connubio fra un sacerdote e un chirurgo.

Una volta che quest’attività dall’ambiente domestico o del piccolo laboratorio artigiano è stata trasferita nella fabbrica per essere esercitata a livello industriale ha inevitabilmente perso tutti i caratteri di quella che un tempo era considerata “l’arte della norcineria”.

Luciano Giacchè

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