Calamita Cosmica, il grande scheletro nella chiesa di Foligno
Congiunzioni astrali hanno permesso a una delle più impressionanti ed ermetiche opere di Gino De Dominicis, Calamita cosmica, di trovare definitivo riposo, dopo un lungo peregrinare per mezza Europa, all’interno di un’altrettanto enigmatica opera architettonica, la chiesa della Santissima Trinità in Annunziata a Foligno.
Due capolavori apparentemente estranei vivono oggi in assoluta simbiosi, l’una, vita e morte dell’altra, inducendo tra loro un imprevedibile scambio osmotico, tanto da costituire un unicum che non trova confronti.
Per una curiosa coincidenza, e non sarà la prima, la Calamita Cosmica ha trovato la sua ideale collocazione in una chiesa la cui costruzione venne sancita nel 1760 da un contratto tra le monache e i mastri muratori, registrato guarda caso, dal cancelliere De Dominicis, omonimo dell’immortale Gino.
L’ambizioso progetto di Pietro e Giuseppe Buccolini su disegno dell’architetto Carlo Murena, non fu mai completato, lasciando dal 1774 nude le tessiture laterizie e il tamburo pronto per una cupola mai realizzata.
La chiesa fu utilizzata per molti anni come panificio, granaio, caserma, infine rimessa per le auto della polizia di Stato. Come in una grande officina meccanica, il pavimento era una lastra di cemento con al centro la fossa per cambiare l’olio. A seguito del terremoto del 1997 fu abbandonata e le auto rottamate coperte dallo stereo di piccioni.
Durante i lavori di restauro che ne seguirono, due importanti segni: sotto il cemento che nascondeva la pavimentazione originaria in coccio pesto, venne alla luce una decorazione circolare corrispondente al centro esatto dell’aula. Al di sotto fu rinvenuto un vano ipogeo utilizzato come un ordinato sepolcreto, con le ossa delle monache disposte all’interno di nicchie. Erano quelli anche gli anni della morte di Gino De Dominicis, avvenuta nel novembre del 1998 e del successivo acquisto della Calamita cosmica da parte della Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno. Occorreranno due tir per trasportare le casse con le “ossa” dello scheletro umano dal naso simile a un becco di uccello innaturalmente acuminato, che simula un mostro antidiluviano, in un magazzino del Comune, nella difficile attesa di trovare uno spazio degno ad accoglierlo.
E qui il colpo di genio. Il 9 aprile del 2011 la clamorosa apertura al pubblico della chiesa dell’Annunziata, plasmata dal caldo colore dei suoi mattoni e sottolineata dalle membrature architettoniche, svelava un audace e imprevedibile intervento museografico. Sul piano della navata, a contatto diretto con il pavimento, ecco la Calamita cosmica, riempire gli spazi vuoti con la sua forza enigmatica e magnetica.
Lo spazio barocco dell’architettura a dialogo con la sperimentazione contemporanea. Lo scheletro poggia sopra il sepolcreto delle monache e, come per una predestinazione, il coccige trova il suo centro nel cerchio segnato sul pavimento, dunque al “centro” del mondo: siamo a Foligno, Umbilicus Italiae.
Il teschio, un unico blocco, era entrato dalla porta principale dell’aula per soli quattro centimetri, due per parte. La chiesa non finita, l’attesa di secoli aveva trovato la sua giustificazione. Straordinario completamento del cantiere barocco. Un caso? Lo “scheletrone” secondo la volontà di De Dominicis avrebbe dovuto essere interamente ricoperto da oro zecchino, ma forse il rivestimento prezioso non è altro che lo scrigno della chiesa, l’urna destinata ad accoglierlo, dove ha trovato pace e immobilità.
Di particolare suggestione il rapporto tra il colosso, realizzato in vetroresina, ferro e polistirolo, con la scala umana dei visitatori e le vedute a sorpresa dalle aperture laterali, come quella del teschio inquadrato perfettamente nel vano della porta, l’asta puntata sulla mano in un ribaltamento della forza gravitazionale, la luce della vita che scorre sui segni della morte.
Sensazioni personali vagano libere nell’aula, lasciano spazio alla contemplazione e all’immaginazione. Emozione, mistero, silenzio. Questo trasmette l’essere misterioso che non parla un linguaggio antico, ma sembra trasmettere un codice contemporaneo che ciascuno di noi può interpretare a modo proprio.
Vittoria Garibaldi