Unica Umbria

Storia & Storie

La tigna di una ceraiola

Diario di viaggio, Luoghi
Autore: Panfili, Stefania

Tigna: Sostantivo femminile. Testardaggine, puntiglio.

Tignoso: affetto da tigna, testardo.

A Gubbio, tignoso fa spesso coppia con «piccolo, ma…».

Gubbio vista dall’aereo

Piccolo, ma tignoso era mio padre. E replicante al femminile – passata per una sorta di fotocopiatrice genetica – piccola ma tignosa sono venuta io. Soprattutto il 15 maggio. Già. Perché a Gubbio, il 15 maggio, la tigna aumenta in maniera esponenziale. Ed è stata proprio la tigna (mescolata all’incoscienza dei 25 anni) che mi ha fatto provare una delle emozioni più forti della mia vita.

Sangiorgiari, foto Paolo Panfili

Correva l’anno 1983: l’anno di Ezio Casagrande capodieci.

San Giorgio doveva riscattare l’accidente capitato l’anno prima all’alzata: un volo pauroso in mezzo alla piazza. Che tra parentesi costò una guancia rossa e il segno di cinque dita a una sprovveduta ragazza venuta da fuori che –  in quel momento, con il cero steso davanti ai miei occhi –  mi chiese perché stessi piangendo strattonandomi la manica della camicia.

La corsa del riscatto è impeccabile: Neri, Corso, Ferranti…

Mentre salgo verso Piazza Grande, mi tornano in mente le parole di Mario Pierotti, il nipote di Tino. Tino de Buricchio, fraterno amico del babbo e padre nobile del Cero di San Giorgio.

«Perché non mi fai da braccere, sul Monte?». Me lo aveva chiesto nel primo pomeriggio, sulla piazzetta di Sant’Antonio. Una richiesta che lì per lì volevo declinare per manifesta incapacità. «Io, che non ho mai preso nemmeno un cero mezzano durante la mostra?»

«Se non te la senti di entrare – era stata la risposta tranquillizzante di Mario – mi prendi la mano e tiri. Serve anche quello».

Le farfalle buttate nello stomaco da quella richiesta si placano solo un paio di ore dopo, quando vedo la statua di Sant’Ubaldo e sento il trombettiere che suona la carica. Dimentico tutto: Mario, l’appuntamento davanti alla Cia, l’offerta che mi era stata fatta.

Ci ripenso quando i Ceri sono fermi in Via dei Consoli. «O vai subito – mi dico – o non ci vai più».

È un attimo: via per gli stradoni del monte. Mentre salgo mi fumo quattro o cinque sigarette per allentare la tensione. Una dietro l’altra, senza soluzione di continuità. Finalmente arrivo al posto convenuto. Con quasi mezz’ora di anticipo. Per ingannare l’attesa mi tiro su i pantaloni (non si sa mai, potrei inciampare…)  e mentre giro il risvolto un signore stempiato e attempato, con forte accento romano, mi fa: «Ma che, mo’ i Ceri li pijano anche le donne?» La mia risposta non viene proprio da Cambridge: «Ma vaff… str… (bip-bip). Ma stai a casa tua!».

I ceraioli di San Giorgio

Tra una parolaccia e l’altra, si sente il fermento prima, l’esaltazione poi. Il grido eugubino risuona per le vie del monte ed esplode là, dove io sono in attesa: «Eccoli! Via, ch’eccoli!» Dieci secondi di tempo in cui mi chiedo: «Che faccio? Fuggo o resto?» Risposta: resto. Vorrei fare la pipì. Vorrei fuggire, ma non ce la faccio.

Il Cero sta arrivando. Male che vada afferro la mano di Mario e tiro.

Arriva San Giorgio: buio. Non ricordo niente. Soltanto un braccio proteso, io che l’afferro e via … fino alle scale della Basilica.

Una volta uscita, mi rendo conto che avevo fatto il braccere. Braccio intorno alle reni di Mario, l’altra mano che tira e controbilancia il braccio libero del mio amico ceraiolo che corre sotto la stanga. Come l’avessi sempre fatto.

Esco e non mi rendo nemmeno conto di ciò che è stato.

San Giorgio affronta le scale della Basilica. Io sono già uscita, in lacrime, aggrappata al collo di Mario. Stanca ma felice, come si dice in questi casi. 25 anni e 45 kg di peso. Ma con una grande soddisfazione nel cuore: aver dato – pur se da comparsa – una spallata al “mio” San Giorgio.

I Ceri in Piazza Grande il 15 maggio

La sera arrivo a casa, con un’andatura volutamente claudicante. Mia madre mi fa: «Sei caduta?». E io, con una punta malcelata di orgoglio: «No, ho preso il Cero». Risposta: «Sei sempre la solita fanatica». Della serie prendi e porta a casa.

Poi incontro il babbo, piccolo – ma tignoso – esponente sangiorgiaro. Cerca di far finta di niente, ma poi chiede con curiosità mista a rimprovero: «Ti  sei resa conto di quello che rischiavi?». Ha la faccia seria, ma gli occhi sorridono.

Certo, se il Cero fosse caduto o avesse avuto – come si dice oggi – una leggera incertezza, la colpa sarebbe stata mia, insindacabilmente. Ma questo non è successo e Peppino del Bastaro (mio padre) mi guarda con l’occhio umido e capisce che – in fondo in fondo – questa natura non è poi così matrigna.

Delle due figlie femmine (porco Giuda, lui che non ha mai alzato il Cero perché gli mancavano 15 centimetri di altezza, un figlio maschio e aitante l’avrebbe gradito) almeno una, di ritorno, per tigna, una spallata a San Giorgio l’aveva data.

Stefania Panfili