L’olivo per la vita
Alzando lo sguardo dalla valle del torrente Chiona sui contrafforti del Subasio, si scopre Collepino, in quel suo cielo da paradiso perduto. La terra separata a fatica dai sassi è nascosta dal mare verde degli olivi, ondeggiante sotto gli sbuffi del vento.
Gli antichi dicevano: il cane per cacciare, il cavallo per la guerra, l’olivo per la vita. Eppure con l’olivicoltura nessuno si è mai arricchito, da queste parti. L’olivo di Atena rimane per gli umbri il simbolo della triade agraria mediterranea. Ma della vite – e quindi del vino, che ha assunto un valore soprattutto tecnologico e commerciale – s’è perso il significato solenne. La perdita, non solo simbolica, investe in maggior misura il grano, che per gli antichi veniva dal cielo, mentre adesso viene dai cancerosi silos di stoccaggio dell’Ucraina.
L’ulivo non rende molto, è vero, ma dalle nostre parti nessuno vuole separarsene, forse per quel suo primato di utilità e sacralità, che il frumento, meno esclusivo, non possiede perché sostituito da altri cereali.
L’ulivo è come la donna amata, non ha equipollenti. Ha sconfitto tutti i suoi rivali, in cucina e nell’immaginario collettivo mediterraneo.
L’Umbria è terra arcaica. I suoi contadini non hanno ceduto un’inticchia del loro remoto patrimonio genetico forgiatosi nella civiltà rurale, che affonda le proprie radici nelle antiche prescrizioni, a partire dalle Tavole Iguvine fino ad oggi. Se così non fosse non avremmo tanti dipendenti pubblici che, bollato il proverbiale cartellino, si tolgono le scarpe buone per montare sul trattore.
Peccato che abbiamo consumato i pochi suoli utili all’agricoltura valliva di questa regione. Peccato che le terre d’Appennino siano tutte, nuovamente, da dissodare. Eppure, malgrado la penuria delle rendite, in collina si continua a piantare l’ulivo, che se lasciato incolto regredisce a olivastro selvatico come in molte regioni vocate, la Liguria su tutte.
Ne ha viste tante l’olivo. Infrastrutture, zone industriali, disastri ambientali non incideranno (quantomeno in questa “Italia di Mezzo”) sull’ancora diffusa agricoltura collinare tenuta in vita dall’olivo, la cui cura non costituisce solo pratica economica o agricolturale, bensì culturale, perché attraversa tutta l’antichità.
Gli ulivi di Giano, Spello, Bevagna, Bettona, Tuoro, Campello sul Clitunno e Arrone, gli ulivi stortati e inclinati, tormentati dalle sgorbie e dal gelo, divorati dal nero cancro – eppur vivi, dalle radici alle frasche mai dome – verdi anche negli anni della siccità, quando il resto langue o muore, si salveranno.
Sopravvivranno a forza di picconate sulla poca terra che li circonda, in un paesaggio non più intatto, è vero, ma che conserva il rapporto essenziale tra vegetazione produttiva e terreni sottratti alla selva, spesso circoscritti da muri di pietre che l’uomo ha tolto dai campi, fino a rompersi la schiena.
Mostriamo l’ulivo ai nostri figli, perché di tutto quel mondo rurale scomparso esso è il solo testimone ancora capace di raccontare il sindacalismo eroico, le plebi affamate, le battaglie contadine, i sacrifici mal ripagati a dispetto di una rivoluzione industriale indifferente all’Umbria e che nel resto del paese ha cancellato tutto, reso invano tutto. Beata umbritudine, umbra beatitudine.
Giovanni Picuti