Unica Umbria

Storia & Storie

Piazza Danti e i geni di una grande famiglia

Diario di viaggio, Luoghi
Autore: Fioravanti, Federico

Piazza Danti. Appena qualche passo dietro la Fontana Maggiore e quel corso dedicato al Perugino. Nascosta dalla grande cattedrale, ma comunque aperta verso ogni altra direzione, la piazza accanto al Duomo racconta forse meglio di ogni altro luogo l’anima di Perugia: una città che più di esibire cela, nasconde. E spesso dimentica, con la scusa eterna di una distrazione esibita, segno distintivo di un carattere orgoglioso e insieme sfuggente.

Di notte, da Piazza Danti verso Corso Vannucci

Lo scrittore e saggista, George Steiner in suo libro ha cercato di spiegare l’identità del Vecchio Continente. Se potesse rinascere, forse qui, seduto all’ora del tramonto davanti al bar Turreno, troverebbe la miscela ideale di una certa idea di Europa, il bandolo della matassa di un’identità collettiva da ricomporre, con pazienza, come in un puzzle.

C’è il caffè, in luogo degli appuntamenti, delle cospirazioni, dei dibattiti e dei pettegolezzi, dove i “flaneur” possono anche sognare oppure starsene accucciati al caldo appena torna la tramontana. Qui, di fronte a strade diverse che si biforcano, si può ancora camminare piano insieme ai propri pensieri. Il passeggio e il paesaggio si confondono di continuo, come fa la memoria quando si esercita sugli uomini e sulle cose.

Per secoli, questo approdo naturale al cuore della città verticale, dove il gomitolo di strade, di antiche porte, archi, vicoli, scale e salite si dipana quasi all’improvviso poco prima di nuove, misteriose discese, era chiamata da tutti la Piazza delle Erbe e della Paglia.

Della vecchia denominazione è rimasta una traccia curiosa nei bassorilievi disegnati sui palazzi, proprio all’inizio di Via del Sole e di Via Bartolo: segni di pietra, quasi nascosti dai rifacimenti recenti delle vecchie costruzioni. Raffigurano delle mani che stringono spighe di grano. Perché il pane e le biade per i cavalli venivano vendute proprio lì, dove adesso, ogni settimana si monta in fretta l’atteso mercatino delle terrecotte.

L’ANIMA DELLA TOPONOMASTICA In pochi metri, si può anche provare a capire una città: sulla piazza si apre la porta barocca della cattedrale dedicata a San Lorenzo, uno dei tre patroni di Perugia, insieme a San Costanzo e Sant’Ercolano. Tutti e tre vescovi e anche martiri. Con devozioni comuni ma personalizzate. Tre patroni, per lasciarsi comunque, anche nella preghiera, un’altra possibilità di scelta.

A pochi metri, quasi di fronte al tempio, c’è il Pozzo Etrusco, scavato tre secoli prima della nascita di Cristo, dove ci si può immergere per 37 metri cercando tracce di radici mai dimenticate.

Perugia, Piazza Danti

Piazza Danti, in fondo, è solo una scritta. Ma in Europa anche la toponomastica ha un’anima. E il nome Danti, come la città di Perugia, nasconde molto di più di quello che sembra mostrare a un primo sguardo. Svela ancora, per chi le vuol cercare, le vicende straordinarie di una geniale famiglia che segnò un’epoca di creatività, grazia e bellezza nella Perugia a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento.

Il capostipite della dinastia si chiamava Pier Vincenzo. Era un vero uomo del Rinascimento, dall’ingegno multiforme: matematico e orafo, amava ideare e poi costruire raffinati strumenti astronomici. Era figlio di un notaio, Bartolomeo Ranaldi. Ma Pier Vincenzo volle inventare anche una nuova identità: amava a tal punto la letteratura e la poesia dell’Alighieri da chiedere e ottenere di cambiare il suo cognome in Danti. Una richiesta singolare che però fu accolta dai maggiorenti perugini.

Da allora, sia lui che i suoi eredi, furono noti come i Danti, cioè i figli di Dante, il sommo poeta che cantò l’acropoli perugina nel Paradiso della sua immortale Commedia: «Onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole…»(XI, 46-47). I perugini sorridevano dello snobismo di Pier Vincenzo, talmente innamorato di Dante da volergli diventare anche parente.

IL FOLLE VOLO DI GIOVAN BATTISTA Ma il vero stravagante della famiglia Danti era suo fratello minore: Giovan Battista. Matematico, fisico e apprezzato ingegnere militare. Ossessionato, fin dall’infanzia, da un sogno che sembrava impossibile: volare, come gli uccelli, senza aiuti meccanici. I suoi concittadini lo chiamavano Dedalo, il personaggio della mitologia greca che costruì grandi ali di cera per Icaro ma poi vide suo figlio precipitare mentre, ebbro di felicità, si avvicinava sempre di più al sole. L’astro celeste con il suo calore sciolse le ali di quel sogno.

Giovan Battista Danti

Ma Giovan Battista, il “perugino volante” riuscì nella sua folle impresa. E volò davvero, dopo infiniti tentativi, sui tetti di Perugia, grazie ad ali grandi e leggere che lui stesso aveva costruito con legni e pelli di animali. Era l’anno di grazia 1498: a Perugia si festeggiavano le nozze di Pantasilea Baglioni, discendente del potente casato cittadino con l’attempato capitano di ventura Bartolomeo d’Alviano. Giovan Battista Danti si librò sui tetti di Perugia, a mo’ dei moderni alianti, sostenuto dal perenne vento perugino. Poi l’imprevisto: un’ala si spezzò. Dedalo precipitò. Ma gli andò bene: si ruppe soltanto una gamba. Aveva comunque dimostrato che le sue teorie sul volo umano, senza aiuti meccanici, funzionavano davvero. Si accontentò della gloria imperitura fra i suoi concittadini che un po’ lo ammiravano e un po’ lo sfottevano. Non volò più. Lasciò Perugia per andare a insegnare ingegneria a Venezia. E lì mori, nel 1517, a soli 39 anni.

ALTRI GENI DI FAMIGLIA Pier Vincenzo ebbe due figli. Giulio, architetto e orafo per tradizione familiare, collaborò con Antonio da Sangallo alla costruzione dell’imponente Rocca Paolina, che i perugini edificarono in soli tre anni di lavoro.

Sua sorella, Teodora Danti, era poetessa, pittrice e appassionata cultrice delle scienze matematiche: scrisse un commentario sugli Elementi di Euclide e fu anche, di fatto, la prima storica dell’arte italiana, capace di studiare e divulgare, come nessun altro nella sua epoca, la dolce pittura del Perugino. Come suo zio Giovan Battista anche Teodora non ebbe figli. Così riversò il suo affetto e il suo sapere sui tre geniali figli di suo fratello: Vincenzo, Ignazio e Girolamo.

Particolare della statua in bronzo che ritrae Giulio III, opera di Vincenzo Danti

IL GRIFO IMPRIGIONATO Piazza Danti, il salotto di pietra nascosto dietro il Duomo, si chiama così in onore di Vincenzo Danti, il primogenito di Pier Vincenzo: l’unico grande scultore perugino, autore della bella statua in bronzo di Giulio III che dalla fiancata della cattedrale ogni giorno, con la mano destra sollevata in alto, sembra quasi benedire il passeggio dei perugini su Corso Vannucci. In pochi si soffermano a osservare l’altra mano del pontefice, quella poggiata sulla sedia: il palmo indolente imprigiona con una stretta vellutata e feroce il becco e la testa di un grifo. Così l’artista perugino raccontò il destino della sua città, soffocata dal potere temporale dei papi.

Il grande bronzo una volta troneggiava dietro San Lorenzo. E l’attuale Piazza Danti, proprio per l’imponente scultura, allora era conosciuta come la Piazza del Papa. La statua di Giulio III fu spostata nel 1899 per fare spazio alle rotaie di un tram elettrico che ora non c’è più. E lo spazio urbano fu dedicato a Vincenzo Danti. Quasi un risarcimento per il trasloco forzato della splendida statua.

Il busto di Vincenzo Danti nella tomba di famiglia nella chiesa di San Domenico a Perugia

IL MITO DI MICHELANGELO Un’attenzione meritata: Vincenzo fu un “enfant prodige”. Se suo padre adorava Dante, lui crebbe nel mito di Michelangelo, tanto da essere definito il suo discepolo, anche se, per ironia della sorte, non lavorò mai con il genio di Caprese.

Cosimo I de’ Medici, colpito dalla sua bravura, lo volle a Firenze. Lì il grande scultore perugino scrisse “Il primo libro del trattato delle perfette proporzioni” e realizzò autentici capolavori come la “Decollazione”, conservata nel Museo dell’Opera del Duomo e “L’onore che vince l’inganno” che si può ancora ammirare al Museo del Bargello. Scolpì anche “La Madonna con il Bambino” esposta a S. Croce e le due splendide statue dell’Equità e del Rigore che dimorano agli Uffizi.

Altre grandi opere di Danti sono una “Flagellazione” emigrata nel museo Jacquemart André di Parigi e un “Cupido”, a lungo ritenuto dello stesso Michelangelo, che da tempo ha trovato casa nel Victoria and Albert Museum di Londra. Vincenzo lavorò lontano dalla sua città per 16 lunghi anni. Ma quando tornò a Perugia ebbe anche il tempo di fondare la celebre Accademia del Disegno.

L’ENCICLOPEDICO IGNAZIO Il secondo figlio di Giulio fece onore al poeta che suo nonno Pier Vincenzo avrebbe voluto come antenato. Seguì il destino dei Danti, scolpito nei versi del Sommo Poeta, che – senza intenzioni – indicavano il destino della geniale famiglia perugina: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, 119-120) .

All’anagrafe si chiamava Carlo Pellegrino. Ma quando decise di farsi frate, seguendo la regola di Guzman, cambiò nome. E dal giorno in cui varcò la porta del convento cittadino di San Domenico, volle essere Ignazio. Aveva soltanto 19 anni. Si tuffò nella preghiera e nello studio della matematica, della geografia e dell’astronomia.

Ignazio Danti

Ignazio Danti (1536 -1586) a detta di tutti i suoi contemporanei era un vero e proprio pozzo di scienza. Fu presto chiamato a Firenze, nel monastero di San Marco e iniziò a insegnare matematica e scienze alle figlie dell’aristocrazia fiorentina.

Cosimo I de’ Medici, protettore di artisti e scienziati e che già aveva a suo servizio suo zio Vincenzo Danti, colpito dalle sue capacità, lo chiamò per dipingere nel Guardaroba di Palazzo Vecchio alcune preziose carte geografiche del mondo allora conosciuto. L’opera, descritta come una meraviglia dal Vasari, stupì i contemporanee ed entusiasmò il granduca.

Ignazio insieme ad altri strumenti scientifici realizzò anche un globo terrestre e uno splendido astrolabio. Qualche anno dopo, costruì un quadrante marmoreo sulla facciata di Santa Maria Novella con otto orologi solari. E trasformò la chiesa fiorentina in un grande osservatorio astronomico dove installò anche uno gnomone utile a misurare l’esatta posizione del sole in cielo a ogni ora del giorno.

Cosimo I premiò Ignazio e istituì in suo onore una cattedra di Matematica. Danti lo ripagò con un’altra straordinaria scoperta, fatta quaranta anni prima dell’annuncio di Galileo: un rudimentale cannocchiale che Ignazio iniziò a utilizzare per seguire gli spostamenti della stella polare.

LE MERAVIGLIOSE CARTE GEOGRAFICHE Come suo zio, il “perugino volante” Giovan Battista Danti, anche Ignazio non si poneva limiti: in lunghi colloqui con Cosimo de’ Medici, concepì il grandioso progetto di un collegamento d’acqua, tra il Tirreno e l’Adriatico, da costruire lungo le valli dell’Appennino sfruttando il corso dell’Arno. Ma anche un avveniristico canale e la forzosa nascita di alcuni laghi artificiali per assicurare sempre l’acqua alle terre del granduca.

La morte di Cosimo interruppe quel sogno visionario che scandalizzò la corte medicea e suscitò invidie tra i favoriti della nobile casata. Ignazio capì l’antifona. Lasciò Firenze e si trasferì a Bologna dove diventò presto professore di Matematica nella prestigiosa università cittadina. Tra una lezione e l’altra ebbe anche il tempo di costruire la bella meridiana che ancora oggi adorna San Petronio e, tra una lezione e l’altra, arrivò a calcolare l’esatta circonferenza del globo terracqueo.

Agro perugino 1581-1583, Musei Vaticani, galleria delle Carte Geografiche

La sua vita cambiò percorso quando fu eletto papa, con il nome di Gregorio XIII, il giurista Ugo Boncompagni che, come Ignazio aveva insegnato a Bologna. Danti non poteva dire di no al suo collega che lo chiamò subito a Roma per dipingere le tavole d’Italia nella Gallerie delle Carte Geografiche, ora visitabili nei Musei Vaticani. Ignazio portò con sé anche suo fratello Antonio, pittore di qualità, che dipinse tra le altre, la carta dell’Etruria con il lago Trasimeno. Il papa assoldò altri artisti, italiani e fiamminghi.

Il grande cosmografo perugino Ignazio Danti tra il 1581 e il 1583 unì il Bel Paese nel nome della bellezza, della cultura, dell’arte e della religione. Le pareti della spettacolare galleria, lunga centoventi metri e larga sei, sono coperte da venti carte geografiche colorate in scale diverse e popolate di stemmi, emblemi e simboli nelle quale, ogni paese, ogni valle, ogni fiume e ogni montagna sono riconoscibili. E sui mari, azzurrissimi e appena increspati che circondano la penisola, galleggiano navi di ogni foggia e colore.

Nella carta dell’Umbria, terra natale di Ignazio, intorno al Trasimeno, brulicano cavalli, accampamenti e soldati: una scritta in latino ricorda la grande sconfitta dei Romani a opera di Annibale nei pressi di Tuoro. Lungo il corridoio che conduce alla Cappella Sistina, le carte delle regioni tirreniche sono distribuite sulle pareti di sinistra. A destra si ammirano le carte dei territori che si affacciano sull’Adriatico.

Così, nella via aerea che costeggia gli ameni Giardini Vaticani, l’aspro e colto Gregorio XIII, il campione della Controriforma, nel 1580 poteva andare a passeggio per l’Italia, che considerava il suo giardino privato. E farlo senza nemmeno uscire dal suo palazzo.

L’INVENZIONE DI UN NUOVO CALENDARIO Lo stupore che ancora oggi coglie i visitatori alla vista della Galleria delle Carte Geografiche fu lo stesso che attraversò i contemporanei.

Ma Ignazio Danti doveva ancora compiere la sua opera più grande, quella per cui è passato alla storia: fu il principale autore del calendario che tutti noi ancora utilizziamo. La riforma gregoriana non nacque da motivazioni scientifiche ma religiose: il calendario solare doveva coincidere con quello ecclesiastico. Dal tempo del Concilio di Nicea del 325 a. C., il calendario era rimasto indietro di 10 giorni rispetto al Sole. E la Pasqua rischiava di cadere in estate. Veniva infatti calcolata in base alla data dell’equinozio di primavera, che era decisa in quella storica assise religiosa.

Nella Torre dei Venti del Vaticano, sul pavimento del solaio, è ancora tracciata la linea meridiana grazie alla quale Ignazio spiegò l’errore al papa: nella seconda metà del Cinquecento lo sfasamento era ormai diventato di dieci giorni. Gregorio XIII, convinto da Ignazio, corse ai ripari e per risolvere il problema nominò una apposita commissione di cui faceva parte anche il vescovo astronomo di Perugia.

Così, la sera del 4 ottobre 1582, gli italiani, i francesi, gli spagnoli, i portoghesi e tutti gli altri cattolici del mondo, allungarono la propria vita: quando si svegliarono era il 15 ottobre 1582. Come se avessero dormito per dieci giorni: da quella ferale mattina entrò in vigore il calendario gregoriano che sostituì quello giuliano. I paesi protestanti dovettero attendere il XVIII secolo per uniformarsi alla novità. E la Svezia, che lo fece gradualmente, si impantanò in un pasticcio di date: il 1712 a Stoccolma e dintorni fu un anno doppiamente bisestile con un febbraio di 30 giorni.

Obelisco di Piazza San Pietro

L’OBELISCO DI PIAZZA SAN PIETRO Ignazio visse quei giorni di gloria senza parlarne troppo in giro, com’era suo costume. Il papa, riconoscente, lo premiò con la carica di vescovo di Alatri. Da allora l’enciclopedico domenicano si applicò con impegno alla cura delle anime. Ma non trascurò gli studi. Nel 1583, forse pensando agli anni della sua infanzia e agli insegnamenti di sua zia Teodora, scrisse una piccola storia della prospettiva. Costruì anche altri apparecchi che servivano a effettuare complessi calcoli matematici insieme a degli anemoscopi capaci di indicare in modo esatto la direzione del vento. Nel museo archeologico di Perugia sono ancora visibili dei pezzi di questi preziosi strumenti.

Gregorio XIII morì. Al suo posto fu eletto Sisto V. Anche il nuovo papa ricorse a Ignazio Danti per la difficile operazione dello spostamento dell’obelisco in Piazza San Pietro. Il monumento egiziano, un enorme monolite in granito rosso, vecchio di tremila anni e alto 25 metri, fu portato a Roma su ordine dell’imperatore Caligola nel 40 d.C. Per evitare che si spezzasse, i Romani lo caricarono su una nave riempita di lenticchie. Sistemare il gigante di pietra al centro del luogo più importante della cristianità era un’operazione altrettanto complicata. Ignazio guidò con maestria i lavori. Ancora oggi l’obelisco funge da meridiana della piazza e alla sua base  si possono vedere i disegni degli equinozi e dei solstizi tracciati dal grande astronomo.

IL “GIALLO” DELL’ARRINGATORE Quel disegno dei cieli fu l’ultima opera di Ignazio, che morì a 50 anni. Era sopravvissuto a tutti i suoi familiari. Anche a Girolamo, che aveva undici anni meno di lui e che seguendo la tradizione di famiglia fu orafo e pittore. L’ultimogenito dei Danti rimase quasi sempre a Perugia, nella bottega rinascimentale dell’anziano padre Giulio. Dipinse la sagrestia della basilica di San Pietro e affrescò una parete del chiostro di San Domenico. Ignazio lo volle con sé quando realizzò le meravigliose carte geografiche in Vaticano. Molte delle sue opere andarono perdute. Quelle rimaste si possono ancora ammirare nel museo della cattedrale di Perugia, nella bella chiesa di S. Domenico a Gubbio, all’interno della Abbazia dei Sette Frati vicino Pietrafitta e anche nella Collegiata di Umbertide.

Un’opera di Girolamo Danti nella chiesa di S. Domenico a Perugia

Tutti i Danti ora riposano nella basilica perugina di San Domenico, la più grande chiesa dell’Umbria. Lì Ignazio era nato, lì fu ordinato frate e lì volle essere sepolto. Insieme a Girolamo disegnò la sua tomba e quella dei suoi congiunti: il sepolcro spicca su una colonna del tempio, a sinistra del presbiterio, sovrastato da un piccolo busto che raffigura Vincenzo Danti. Una epigrafe latina incisa nella pietra ricorda la grandezza della inimitabile famiglia.

Quasi sotto silenzio è invece passata un’altra vicenda: un “giallo” archeologico nel quale rimasero coinvolti tutti i componenti della dinastia perugina: il trasporto illegale, da Perugia a Firenze, nel 1566, della preziosa statua dell’Arringatore, un bronzo etrusco ad altezza naturale trovato da un mezzadro in una vigna vicino il paese di Pila.

Il contadino vendette la statua a Giulio Danti. Ma il bronzo etrusco sparì subito dalla bottega orafa del centro di Perugia e andò ad arricchire la straordinaria collezione di capolavori di Cosimo de’ Medici. La statua fu messa in una cassa che nottetempo passò la dogana di Sanguineto, vicino Tuoro sul Trasimeno, dove era segnato il confine tra lo Stato pontificio e il Granducato di Toscana. Il proprietario del terreno dove fu dissotterrato il bellissimo bronzo denunciò i Danti e il mezzadro. Il contadino fu imprigionato insieme a Giulio. L’orafo poi fu scarcerato, con gran scandalo dei perugini, dietro 100 scudi di cauzione. Ma questa è un’altra storia.

Federico Fioravanti